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L'orologiaio di St. Paul

Regia di Bertrand Tavernier vedi scheda film

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La recensione su L'orologiaio di St. Paul

di degoffro
8 stelle

Un omicidio. Forse politico, forse passionale. Una coppia di giovani in fuga per le strade di Francia. Un tranquillo, onesto e metodico orologiaio di Lione, Michel Descombes così descritto nel romanzo da cui il film è tratto: "compiva ogni giorno gli stessi gesti, nello stesso ordine, senza rendersene nemmeno più conto, e forse era proprio questo a conferirgli un aspetto così tranquillo e rassicurante. In cucina ogni cosa era al suo posto; prima di scendere lavava sempre i piatti del pranzo. Sapeva che avrebbe trovato della carne fredda in un punto ben preciso del frigorifero, e maneggiava gli oggetti come per incanto." L'uomo viene sconvolto nella sua solita routine dalla notizia che il figlio Bernard possa essere uno spietato assassino, tanto da mettere in discussione il suo stesso ruolo di padre per cercare di capire le ragioni del folle gesto del figlio. Un comprensivo commissario di polizia cerca di risolvere l'intricata matassa. Con questi elementi oggi probabilmente si realizzerebbe un action/thriller rumoroso ed eccessivo, con psicologie azzerate o stereotipate. Nel 1973 Bertrand Tavernier, al suo esordio nel lungometraggio, confeziona un intenso ed appassionante dramma in cui la vicenda gialla passa in secondo piano a vantaggio di un'illuminante e scrupolosa analisi dei caratteri. La solida base narrativa è costituita dal bel romanzo "L'orologiaio di Everton" scritto dal prolifico Georges Simenon nel 1954. Il regista, qui anche sceneggiatore con Jean Aurenche e Pierre Bost, suoi collaboratori anche per i successivi "Che la festa cominci...", "Il giudice e l'assassino" e "Colpo di spugna", nonché celebri autori dell'epoca d'oro del cinema francese, messi alla gogna da Truffaut (su Jean Aurenche, nel 2002, Tavernier realizzerà "Laissez passer") trasporta però la vicenda dagli Stati Uniti alla nativa Lione (e la ricostruzione ambientale è notevole). Tenta di specificare meglio le motivazioni del crimine dei due giovani, del tutto sconosciute invece nel romanzo, dando una connotazione prettamente politica alla vicenda. Amplia ed arricchisce con intelligenza il ruolo del bonario e ragionevole commissario, decisamente più defilato nell'opera di Simenon. Ringiovanisce e rende più complice la figura di Antoine, il migliore amico dell'orologiaio: nel romanzo è un solitario uomo sulla settantina, il falegname Musak, il cui appartamento dà sul campo da baseball locale e con cui il protagonista passa i sabato sera a vedere le partite o a giocare a jacquet, senza peraltro grandi chiacchiere, con un'intesa quasi tacita, qui il rapporto è invece più dialettico e sfaccettato. Aggiunge il bel personaggio della nutrice Madeleine (il che gli consente la toccante parentesi della visita di Michel all'anziana donna che per suo figlio ha fatto da madre). Elimina i frequenti richiami che Simenon fa alla moglie del protagonista ed al suo passato con lei: nel film invece tutto è ridotto a una semplice affermazione di Michel: "Diciamo che sono vedovo: ho provato dolore come se lo fossi!" La notevole abilità di Tavernier consiste nel partire da un film di genere per parlare di tutt'altro: il complesso e delicato rapporto padre figlio, prima di tutto, ma anche il profondo studio dell'esistenza monotona e ripetitiva di un uomo di mezza età che ha dovuto allevare da solo il figlio, crescendo a stretto contatto con lui, salvo poi vedere crollare di colpo tutte le sue certezze nello scoprire di non conoscerlo affatto, o meglio di non avere capito per nulla le sue esigenze, i suoi cambiamenti, le sue evoluzioni. Così si legge nel romanzo: "Poco importava quello che era realmente accaduto, lui doveva proteggere suo figlio. Mai aveva sentito in modo così netto, così carnale, il legame che esisteva fra loro. Non era un'altra persona a trovarsi in difficoltà Dio sa dove, era una parte di sé." Tavernier, rispettando con intelligenza lo spirito dell'opera di Simenon, personalizza e modernizza fortemente il racconto e descrive con stile asciutto ed essenziale oltre che con ammirevole sobrietà e finezza una difficile ed intima relazione padre/figlio, senza bisogno di ricorrere ad ampollosi dialoghi o retoriche soluzioni narrative. Bastano semplici sguardi o inequivocabili silenzi: splendida, per esempio, la sequenza del viaggio in aereo in cui Michel osserva di spalle Bernard e la sua ragazza di cui non ha mai saputo nemmeno l'esistenza, ma notevole anche il primo incontro tra Michel e il figlio condotto ammanettato all'aeroporto. L'uomo è al bar, il ragazzo viene scortato dai poliziotti: i loro occhi si incrociano, il ragazzo saluta il padre con un timido "Ciao papà", poi viene portato verso l'aereo senza che Michel possa dirgli nulla. La superba e sorniona prova in sottrazione del magnifico Phillippe Noiret (così Alberto Moravia ha scritto sulla recitazione dell'attore "Era difficile non dir nulla e far capire tutto. Philippe Noiret c’è riuscito.") è senza dubbio il formidabile valore aggiunto del film. Noiret infatti è bravissimo nel trasmettere del suo orologiaio l'angoscia e lo smarrimento dapprima, ben rappresentati da quell'improvviso mancamento sul tram quando chiede gentilmente ad un passeggero di potersi sedere al suo posto, la determinazione ma anche la rabbia poi (lo sfogo con la giornalista che gli chiede di lanciare alla radio un appello al figlio affinché si costituisca, i litigi con l'amico Antoine che gli rimprovera di avere lasciato fare al figlio sempre quello che ha voluto), fino al fortissimo desiderio di riallacciare davvero il rapporto con Bernard, dopo troppi anni di incomprensioni, dissapori, malintesi e silenzi, confermati anche dal fatto che il ragazzo, in prigione, inizialmente non lo vuole nemmeno vedere. L'espressione sorpresa, disorientata e confusa che emerge dal volto di Noiret quando il commissario gli comunica la volontà di Bernard di non incontrarlo è illuminante, sintesi perfetta di un rapporto affettivo dalle troppe crepe e non detti, in cui il padre è ben consapevole che "la cosa peggiore non è vedere tuo figlio in manette, ma vedere in che modo ti guarderà!". Lo stesso Noiret ha dichiarato: "L’horloger de Saint-Paul è la scoperta da parte di un uomo che in definitiva può vivere con dei paraocchi, senza vedere, sentire, capire le persone più vicine, e tutto questo senza cattive intenzioni, né cattiva coscienza, né volontà di isolarsi dagli altri; succede che si può vivere molto bene così, sia in una famiglia che sul lavoro". La progressiva presa di coscienza dei propri errori, delle proprie mancanze e debolezze, ma anche delle motivazioni, dell'orgoglio e del carattere di un figlio che poi non è tanto diverso da lui spiega perché Michel, al processo, prenda convinto le difese del ragazzo, con il quale si dichiara "totalmente solidale", determinandone peraltro la pesante condanna. Si può così riprendere un discorso a lungo interrotto, come ben evidenzia il primo colloquio in carcere, quando Michel offre a Bernard tutta la sua comprensione ed attaccamento, rendendosi disponibile a crescere con entusiasmo il nipote che sta per nascere. Encomiabile comunque anche la prova di Jean Rochefort nei panni del commissario, ruolo inizialmente pensato per François Périer: nel personaggio di Michel, il poliziotto vede riflessa la sua immagine di padre in difficoltà e disorientato, tanto da domandarsi "Mi chiedo che cosa abbiamo fatto a questi ragazzi!". I sommessi confronti tra i due uomini, tra i quali si instaura una solidarietà del tutto particolare e sorprendente, quasi una timida ed involontaria amicizia, così come quelli tra Michel e l'amico Antoine sono i momenti migliore di un film vibrante di autentica umanità, denso di sentimenti profondi, dalla toccante e rarissima sensibilità, dalla invidiabile introspezione psicologica. Davvero un esordio con i fiocchi. Orso d'argento al Festival di Berlino e Premio Louis Delluc. Dedicato a Jacques Prévert. Due curiosità: la piccola bambina che si vede all'inizio, sul treno, è Tiffany Tavernier, figlia del regista. Ad un certo punto Antoine parla a Michel del film "La grande abbuffata" di cui lo stesso Noiret era stato uno dei protagonisti.
Voto: 8

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