Regia di Michael Reeves vedi scheda film
Reeves ci fornisce la pessimistica visione di un mondo dominato dalle forze del male. Il suo è un film privo di speranza e di sbocchi positivi nella sua rappresentazione impietosa di una società brutale dove l’orrore e la crudeltà vengono raffigurati come l’unico modo di affermazione (e quindi di vita) di una umanità corrotta e senza scampo.
“Il grande inquisitore” (The “Witchfinder General” in originale) è il film più significativo – certamente il suo capolavoro – di Michael Reeves, anomalo regista “maledetto” prematuramente scomparso a soli 26 anni (si suicidò ancora giovanissimo ingurgitando una dose mortale di sonniferi, per inesplicabili ragioni che non ci è dato di conoscere e in circostanze abbastanza misteriose). Reeves, passato davvero nel firmamento cinematografico come un lampo veloce e inafferrabile, aveva iniziato la sua breve carriera proprio in Italia (aiuto regista de “Il castello dei morti vivi”, una scialba produzione italo-francese che annoverava nel cast i “celebrati” nomi di Christopher Lee e Donald Sutherland qui al suo esordio sul grande schermo) ma si affermò da subito come una “promettente” speranza innovativa e “succosa” proprio in virtù della visionarietà torbidamente coinvolgente delle sue opere dense di “suggestioni” sotterranee al di là della banalità schematica delle trame pedisseque che costituivano il limite maggiore delle produzioni horror a basso budget di quegli anni e questo sia con l’opera d’esordio (“ Il lago di satana”) che con il successivo e più pregevole “Killer di satana”, un inquietante fantatrhiller (con un Boris Karloff ormai costretto per ragioni di salute su una sedia a rotelle, ma ancora di particolare efficacia) che ripercorreva la scia delle tematiche metaforizzate che avevano reso grande e indimenticabile, nel suo “mettere in gioco il processo della visione e dell’esperienza mediata dello spettatore”, un’opera fondamentale come “Peeping Tom” di Powell: anche qui il “bisogno morboso” di contemplare, una allegoria evidente proprio del “mezzo espressivo” che viene utilizzato per “raccontare” (la macchina da presa e le immagini che riproduce sullo schermo) che è, allo stesso tempo, la condanna senza appello di quei meccanismi di identificazione che ci coinvolgono direttamente, e della società di riferimento, portata avanti con analoga lucidità e “ferocia”, che proprio in virtù dei mezzi di comunicazione, può nutrirsi senza alcun rimorso o remora della altrui violenza. Un percorso “precognitivo” persino allarmante perchè anticipa con il sul finale agghiacciante, il personale “itinerario senza ritorno” del regista che si sarebbe concluso così tragicamente poco più di un anno dopo con analoghe modalità distruttive. “Il grande inquisitore” rappresenta, all’interno di questo breve cammino, il raggiungimento di una maturità più ragionata e compiuta, l’opera che “impose” all’attenzione decisiva del mondo, le “qualità” del suo autore, facendo percepire ciò che effettivamente avrebbe potuto contenere la crisalide dopo la definitiva "rottura del bozzolo", un talento allucinato sicuramente fuori del comune che avrebbe davvero potuto volare molto in alto ma che purtroppo nessuno ha poi veramente potuto valutare in quella che poteva (doveva) essere la piena e compiuta evoluzione della sua arte: qui rimangono solo gli “embrioni”, le ipotesi e le “aspettative” probabilmente non sufficienti a soddisfarci pienamente, ma bastevoli per determinare un indicibile disagio nostalgico per la “prematura privazione” e la irrimediabile perdita di “ciò che avrebbe potuto essere e non è stato”. Con quest’opera che ha singolari modalità di rappresentazione (come il suo personalissimo stile “urlato e sopra le righe”) che anticipano tematiche che costituiranno molte delle intelaiature portati de “I Diavoli” di Ken Russell (e non è certamente né un caso né un’astrazione), Reeves ci fornisce la pessimistica visione di un mondo dominato dalle forze del male che non risparmia davvero nessuno, nemmeno i cosiddetti “giusti”, un assunto singolarmente privo di speranza e di “sbocchi positivi” nella rappresentazione impietosa di una società brutale e disfatta, dove l’orrore e la crudeltà vengono raffigurati come l’unico modo di affermazione (e quindi di vita) di una umanità corrotta e senza scampo, una proiezione sfiduciata priva del voyerismo compiaciuto che caratterizza spesso l’eccesso insistito della “malvagità ossessiva e ostentata” (e proprio per questo ancor più terrificante) capace di “fissare” nella ripetitività “normalizzata” di gesti quotidiani e (in)naturali proprio quelle “perversioni” assolute che saremmo tentati di considerare (a torto) patologiche devianze. La storia è ambientata nel 1645 ed ha per sfondo il periodo delle guerre civili che opponevano ai puritani di Oliwer Cromwell, i realisti di Carlo I. Il protagonista è il perverso inquisitore Matthews Hopkins (un insuperabile Vincent Price in una delle sue più straordinarie caratterizzazioni) che insieme al suo assistente Stearne, percorre sistematicamente le campagne dell’Inghilterra Orientale a caccia di vittime sempre nuove su cui sfogare il suo sadismo (soprattutto presunte streghe e papisti). Giunge così nel villaggio di Brandeston per accusare il prete John Lowers di aver venduto l’anima al diavolo e farne così oggetto delle sue perversioni. La nipote Sara, nel tentativo di salvarlo, si concede all’inquisitore sperando così di risparmiare la vita al parente, ma Stearne, scoperto il patto, violenta la ragazza e convince Hopkins a giustiziare Lowers. Per prevenire la vendetta del militare fidanzato di Sara che è venuto a conoscenza della tragedia (Ian Ogilvy, amico e attore “prediletto” del regista), Hopkins accusa allora entrambi di stregoneria, e solo grazie all’assalto alla prigione di alcuni compagni d’armi del soldato verrà impedito al sanguinario personaggio di portare a compimento le mostruose torture programmate che continuano ad essere perpretate sul corpo della ragazza, Sarà poi il fidanzato di Sara, una volta liberatosi dalle catene, a colpire l’inquisitore con un’ascia massacrandolo, finché uno dei soldati, sconvolto e inebetito, non si deciderà a dare il colpo di grazia con una pallottola per porre fine allo scempio. Risultano evidenti, già da questa sintesi, echi e riferimenti persino alle cupezze esasperate della tragedia elisabettiana di quella che potremmo definire una “ballata macabra” allucinata e affascinante che si avvale per altro di una ricostruzione storica particolarmente accurata che viene esalta dalle splendide riprese in esterni (girati nel Suffolk) restituiteci dalla “magia rilucente" della raffinata fotografia di John Coquillon, davvero un “valore” aggiunto prezioso e insostituibile. A mio avviso dunque assolutamente una “visione” da non perdere quella di questa insolita e poco frequentata pellicola, approfittando del passaggio televisivo a “Fuori orario” programmato per domenica 18 febbraio 2007 alle ore 1,45, salvo “scivolamenti” o “anticipazioni” ghezziane sempre possibili. Buona visione a tutti.
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