Regia di Satyajit Ray vedi scheda film
Apu (Soumitra Chatterjee) è ormai un uomo fatto ed ha un riconosciuto talento letterario. Guadagna qualcosa pubblicando dei racconti ma non basta. Per vivere è così costretto a fare ogni sorta di lavoro. Gli sforzi fatti negli studi risultano vani in un paese che sembra non offrirgli nessuna opportunità di lavoro adatta alle sue legittime ambizioni. Seguendo gli insistenti consigli dell'amico Pulu (Swapan Mukherjee), Apu sposa Aparna (Sharmila Tagore), figlia di un’agiata famiglia di provincia. Il loro è un matrimonio “combinato” secondo le antiche tradizioni indiane, ma nonostante si siano conosciuti solo durante il rito del matrimonio, tra i due nasce un grande amore. Vivono di stenti in un piccolo monolocale a Calcutta, perché il lavoro scarseggia a perché i sogni letterari di Apu non decollano. Poi succede che Apurna si trasferisce dalla sua famiglia per partorire il bambino che porta in grembo. Ma durante il parto muore e il piccolo Kajal (Alok Chakravarty) cresce con il nonno. Apu è a Calcutta, e lontano rimane per almeno cinque anni dalla nascita del figlio. Perché non vuole saperne di conoscere il piccolo Kajal, per lui troppo legato alla morte dell'amata moglie.
“Il mondo di Apu” chiude la trilogia che il maestro indiano Satyajit Ray ha incentrato intorno ad una figura fortemente emblematica come quella di Apu (un'opera interamente ispirata dal romanzo “Pather Panchali” di Bibhuttibushan Banpopadhyay). Infatti, attraverso gli sviluppi esistenziali della sua vita si lasciano emergere in filigrana i tratti salienti di una regione complessa come quella del subcontinente indiano durante i primi decenni del novecento : la povertà cronica che imperversava soprattutto nelle campagne, la non facile ambientazione nelle grandi città per chi proveniva dalla periferia, l'estrema difficoltà per i più giovani a coltivare le loro ambizioni di miglioramento sociale e culturale, lo scontro latente tra l'ispirazione al rinnovamento dei giovani più avveduti e la conservazione di antichi rituali.
Il bello della "Trilogia di Apu" e che ogni singolo film può anche essere visto singolarmente senza disperdere nulla dell'apporto speculativo che si intende far emergere. Perché, se è vero che i tre film sono legati da un'ovvia continuità narrativa che percorre l'intera vita del protagonista, è altrettanto vero che tra di loro conservano un'indipendenza filologica in quanto ognuno è il risultato del modo in cui Apu si rapporta con il mondo esterno in relazione all'età di riferimento. È la regia stessa a marcare questa sottile differenza di approccio, facendosi sempre meno elegiaca e meno incline a surrogare nella fissità delle inquadrature tutto il necessario presente nella messinscena, quanto più le difficoltà esistenziali di Apu si sposano con i ritmi più veloci della vita cittadina e con la crescente consapevolezza dell’uomo rispetto al suo ruolo nel mondo.
Infatti, ne “Il lamento sul sentiero”, i lutti e la povertà estrema che imperversa nelle vaste campagne bengalesi vengono filtrate attraverso l'esperienza ancora acerba del piccolo Apu, che in quanto bambino le tratta come cose che ancora non possono appartenergli. In “Aparajito”, invece, il trasferimento della famiglia a Benares, la morte del padre e gli ottimi successi scolastici, spingono Apu ad affrontare le prime scelte dolorose pur di soddisfare le sue più vere aspirazioni. Qui inizia a conoscere il peso delle scelte individuali e la responsabilità di dover badare a sé stesso. La regia non si adopera più nel presentare la serenità bucolica come un possibile antidoto alla sofferenza umana, ma inizia ad essere più diretta nel disegnarla su dei volti spaventati dalla paura di rimanere soli. Ne “Il mondo di Apu”, infine, Apu si confronta con la necessità di dover svolgere lavori precari per sopravvivere e con l'estrema difficoltà a rimanere fino in fondo sé stesso. Qui la regia gioca più di sponda con gli impliciti condizionamenti sociali sulla vita lavorativa di Apu, allargando più spesso del solito il campo di ripresa per rendere più chiare la forma delle cause.
La trilogia di Apu è dunque una parabola umanista divisa in tre tappe, tante quanti sono i punti di vista adottati dallo stato emotivo del momento. E dopo che il trasferimento a Benares e la frequentazione all'università di Calcutta avevano iniettato in Apu la speranza di cambiamento, questo film fissa il momento esatto in cui i frutti ormai maturi del disincanto lo mettono di fronte all'evidenza di un destino fatto di poca gloria e molta amarezza.
Non è un caso che il film inizi con un invito esplicito fatto ad Apu da un editore di continuare a scrivere perché ha molto talento. Perché questo è il modo inteso da Satyajit Ray di fare del suo personaggio lo specchio della condizione sociale del paese. Una modalità qui portata al culmine della sua espressione narrativa. Il maestro indiano concentra tutta la sua attenzione sullo sviluppo esistenziali di Apu, ma a fare da sfondo c’è sempre un paese che non può soddisfare mai appieno le sue aspettative di studioso e il suo talento letterario perché lo costringe, non solo ad accettare lavori degradanti, ma anche a mettere in deroga la sua formazione scientifica per corrisponde a rituali religiosi imposti dalla tradizione. Apu è come stretto in una morsa senza via di fuga, e l’ottimismo con cui cerca comunque di affrontare le avversità si trasforma in una cupezza d'animo sempre più marcata. Anche la regia contribuisce ad evidenziare questa regressione emotiva, investendo molto sul volto del bambino che si è fatto uomo, un volto che da curiose e possibilista va facendosi sempre più disincantato. Emblematico è il rapporto con Aparna, che nato come una forzatura rituale si trasforma presto nell’amore di una vita, un amore che resiste alle ristrettezze economiche e agli spazi angusti in cui sono costretti a vivere. La morte durante il parto di Aparna è per Apu solo l'ultimo atto di un calvario senza fine, così come la rinuncia alla paternità è solo il tentativo di affogare nella più completa solitudine tutta la sua sofferenza esistenziale. Perché la presenza del piccolo Kajal è troppo legata alla morte di Aparna perché possa crescerlo senza soffrirne. Ma la grandezza della trilogia sta nell'offrire sempre uno spiraglio di luce anche nell'approssimarsi delle tenebre, di riavviare ogni volta il motore della vita con una forza d'animo che non ha niente di trascendente. Il finale ci restituisce padre e figlio in una scena che tocca le corde della commozione senza apparire minimamente retorica. Grande cinema di un maestro di discrezione.
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