Regia di Satyajit Ray vedi scheda film
Sarbajaya (Karuna Bannerjee) deve prendersi cura dell’adolescente Dunge (Uma Das Gupta) e del piccolo Apu (Subir Banerjee). Il marito Harihar Roy (Kanu Bannerjee) non è molto presente perché impegnato a trovare un lavoro che soddisfi le esigenze minime della famiglia. Il suo sogno è diventare un poeta e drammaturgo, ma intanto che aspetta l'occasione giusta tenta ogni azione per tirare avanti. Servono soprattutto i soldi per riparare la casa ormai fatiscente, e l'impossibilità di farlo mette l’intera famiglia in un'angosciosa situazione. La vita è difficile soprattutto per la donna, che sopporta male anche l'idea di dover condividere la sua povera casa con l'anziana e invalida zia Indir (Chunibala Devi). Come sorella maggiore, Dunge si prende cura del piccolo Apu e insieme cercano di godere dei piccoli piaceri della vita offerti ogni giorno dalla bellezza bucolica che li circonda. Ma la povertà è troppo dura per non adombrare le loro giovani vite. Dopo diversi mesi in cui era stato lontano da casa, il padre ritorna a casa senza ancora un lavoro utile su cui poter contare. I soldi per riparare la casa non ci sono e così la famiglia decide di lasciare la casa e il villaggio che da generazioni gli appartenevano per trasferirsi a Benares.
“Il lamento sul sentiero” - Scena
“Il lamento sul sentiero” di Satyajit Ray e il primo capitolo della trilogia di Apu, un'opera interamente ispirata dal romanzo “Pather Panchali” di Bibhuttibushan Banpopadhyay incentrato sulle traversie di una famiglia bengalese durante i primi decenni del novecento. Con la trilogia di Apu, il regista indiano offre all’occidente un’immagine tutt’altro che esotica della sua regione, che dà luogo mitico, abitato da spiriti ascetici e colorato da suadenti coreografie, viene rappresentato attraverso le laceranti condizioni di povertà che lo caratterizzano.
“Il lamento sul sentiero” è un film che fa emergere, tanto l'urgenza di mostrare attraverso il mezzo cinematografico le sofferte condizioni di vita di larghi strati della popolazione bengalese, quando l'intenzione di farlo senza derogare da un approccio sentitamente realista. Lo sguardo di Ray è sempre intimamente legato a ciò che nell’inquadratura viene preventivamente imprigionato, uno sguardo sempre compassionevole ma mai retorico, sempre poetico ma mai compiaciuto. La faccia della disperazione è quando maggiormente emerge dalla messinscena, ma la forza di tirare avanti non cede mai totalmente il passo al pessimismo più nero. Tutto sembra avvolto in una serenità bucolica incorruttibile, ma è proprio questo a far risaltare per contrasto l’esposizione della povertà in quanto tale.
Il maestro indiano non ha mai negato l'influenza ricevuta dall’esperienza cinematografica del neorealismo italiano, e come i suoi colleghi europei il suo approccio “verista” dovette subire l'ostracismo delle autorità statali. Perché, nell’India post-coloniale attraversata dal vento dell’ottimismo, non era buona cosa mostrare la faccia cruda della miseria, non si faceva un buon servizio documentare come la povertà rimaneva un fatto che non lasciava tregua alla popolazione.
E ne “Il lamento sul sentiero”, Satyajit Ray la miseria c'è la mostra per quella che è con la nitidezza tipica di chi intende portare la vita al cinema dalla porta principale. Le condizioni di povertà sono colte attraverso l'attenzione rivolta ad ogni più piccolo particolare, animato o inanimato che sia. Insistiti primi piani sugli occhi dei personaggi ci dicono più di mille parole come la sofferenza umana è un fatto di carne e sangue che nella parte più debole del pianeta maciulla l’innocenza di chi la subisce. Così come gli oggetti diventano materia viva, un tramite che consente di misurare la distanza tra lo spirito di sopravvivenza che resiste e tutto ciò che manca per vivere una vita veramente dignitosa. Si prendano le diverse volte in cui la regia indirizza la sua attenzione sul riso, che in quanto unico alimento disponibile diventa anche il segno più tangibile della miseria.
Si è già detto che “Il lamento sul sentiero” è la prima tappa della trilogia di Apu, che va dalla sua nascita fino a quando si trasferisce con la famiglia dalla campagna bengalese alla grande città di Benares. In questo lasso di tempo, il piccolo Apu inizia a fare la conoscenza della durezza della vita e a confrontarsi con le cicatrici impresse nel cuore dai lutti prematuri. È attraverso la centralità della sua esile figura che Ray costruisce una narrazione filmica basata sul mirabile equilibrio tra la serenità bucolica vissuta con tutta l'inconsapevolezza degli anni e la crescita precoce che si fa simbolo di una condizione di povertà che percorre un intero paese. È con la storia di Apu bambino che inizia un'esperienza cinematografica ricca di sfumature etnografiche e suggestioni poetiche. Un ritratto senza veli sulla condizione umana che ancora oggi è capace di offrirsi come un prezioso gioiello documentaristico. Insomma, con “Il lamento sul sentiero”, il mondo conobbe un modo diverso di fare grande cinema.
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