Regia di Satyajit Ray vedi scheda film
Splendido esempio di neorealismo indiano, toccante nella sua austera semplicità, incede con passo flemmatico e con taglio naturalistico e quasi documentaristico, rifuggendo il pietismo lacrimoso e l’enfatizzazione drammatica, ma riuscendo a a stabilire una connessione emotiva potente attraverso il suo profondo umanesimo.
Una poverissima famiglia vive in una sorta di rudere diroccato nelle campagne del Bengala occidentale: la ragazzina Durga, la madre, il padre ed un’anziana zia, più verosimilmente un prozia, in apparenza centenaria (ma magari poteva essere una settantenne piegata da una esistenza di stenti). Le prime scene del film vedono l’arrivo di un nuovo personaggio, il secondo figlio della coppia: Apu, che diventerà il protagonista della trilogia di cui Il Lamento sul Sentiero costituisce il primo capitolo. Un salto in avanti di pochi anni, e ritroviamo Apu bimbo vivacissimo, mentre Durga è una preadolescente di cui si comincia già a progettare il matrimonio. Per il resto la vita scorre sempre uguale in quel mondo rurale e selvatico, dove ogni giorno è segnato da una lotta per la sopravvivenza contro l’inedia e le malattie. Un mondo ancora arcaico dove il tempo sembra essersi fermato ad un’era indefinita, sebbene la modernità cominci a far capolino sotto forma di un treno (ancora a vapore!) che passa attraverso i campi lasciando una scia di fumo nero, spettacolo estasiante rincorso dai bimbi, e sebbene il richiamo delle opportunità della città (Benares) inizi a spingere i contadini all’emigrazione urbana. Un mondo in cui la preoccupazione quotidiana di mettere qualcosa sotto i denti supera ogni altra considerazione, mentalità incarnata principalmente dall’apprensiva mamma, custode del benessere della casa, che teme che il più spensierato marito non venga pagato per il suo lavoro, che l’acquisto di uno scialle per la decrepita zia possa compromettere bisogni più impellenti o persino che quest’ultima mangi troppa frutta, sottraendo preziose risorse ai bambini.
Debutto del celebrato regista Satyajit Ray, realizzato con pochissimi mezzi e terminato solo grazie all’aiuto determinante del governo del Bengala Occidentale, Il Lamento sul Sentiero è uno splendido esempio di neorealismo indiano, quanto di più lontano dallo sfavillio musicale di Bollywood e chiaramente ispirato alle opere italiane di De Sica o Rossellini, in particolare per lo sguardo partecipe e diretto sul mondo dell’infanzia tra gli “ultimi” della scala sociale. Il regista concentra l’attenzione sugli eventi giornalieri e sui dettagli apparentemente minuti della misera vita della famiglia protagonista, sui poveri oggetti e le spartane suppellettili della diroccata dimora, sui gesti dell’incessante lavorio quotidiano contro la fame, come l’impasto del riso, sul chiasso dei giochi dei bambini in un cortile affollato di gatti, e soprattutto sui primi piani espressivi dei protagonisti: i grandi e curiosi occhioni di Apu, la spensieratezza di Durga, lo sguardo apprensivo della madre, il sorriso ottimista del padre, il viso segnato e la schiena incurvata della vecchia.
Un’opera toccante nella sua austera semplicità esaltata dalla bellissima fotografia in bianco e nero, che incede con passo flemmatico e con taglio naturalistico e quasi documentaristico, che rifugge il pietismo lacrimoso e l’enfatizzazione drammatica degli eventi, anche i più dolorosi, ma tuttavia riesce a stabilire una connessione emotiva potente attraverso il suo profondo umanesimo.
Complemento alla potenza delle immagini sono le musiche ipnotiche ed evocative del sitar di Ravi Shankar, futuro collaboratore dei Beatles.
Non ci sono commenti.
Ultimi commenti Segui questa conversazione
Commenta