Regia di Satyajit Ray vedi scheda film
Ispirandosi al neorealismo italiano (la visione di Ladri di biciclette fu un'esperienza fondamentale per il regista indiano), ma, ancora di più, all'estetica di Flaherty, Ray comincia con questo film la trilogia ispirata al romanzo Pather Panchali del connazionale Bibhutibhushan Bandyopadhyay. Con occhio attento a non perdere neanche il più piccolo gesto dei suoi straordinari attori non professionisti - compresa l'eccezionalmente espressiva Karuna Bannerjee - Ray ambienta nel suo Bengala questa storia di miseria, che sovente si sublima in pura poesia, come accade in parecchie delle sequenze che compongono questo mirabile mosaico filmico. Non si possono dimenticare scene quali il primo risveglio del piccolo Apu, la morte della vecchia, la morte di Durga, il ritorno a casa di Hori, con la tragica scoperta di quanto è successo durante la sua assenza. Ogni minimo gesto ha sapore di verità (come coordinare i movimenti del cane con gli scatti dei bambini o quelli del gatto con l'andatura caracollante della vecchia?) e regala emozione allo stato puro, come sa fare solo il cinema dei grandi (mi viene in mente qualche frammento di Mizoguchi, che, come Ray, proveniva dall'arte figurativa). Il lamento sul sentiero propone una visione non edulcorata dell'India post-coloniale, tanto che le autorità governative tentarono di bloccarne la diffusione. Anche sulle rive del putrido Gange si preferiva che i panni sporchi venissero lavati in famiglia.
La storia di Apu, che qui vediamo nascere, prosegue in Aparajito (1956) e si conclude con Il mondo di Apu (1959), mentre Ray tornerà ad occuparsi dell'arretratezza culturale del suo paese anche con Devi - La dea (1960)
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