Regia di Kenji Mizoguchi vedi scheda film
La vendetta dei 47 ronin ovvero I samurai leali dell'era Genroku.
La condizione del ronin, samurai privo di padrone e destinato a uno stato esistenziale non troppo lontano da quello del vagabondo, è sicuramente estendibile all'intera condizione umana. Con la sola differenza, rispetto alla figura classica del vagabondo, che il ronin tiene a mostrare ancora il suo onore e i suoi valori del passato, e percorre magari le stesse strade del vagabondo (inerzia, se non addirittura autodistruzione) con un atteggiamento e un portamento che vogliono essere comunque remori di quell'illustre tempo in cui il proprio spirito di samurai era ancora nobile e altissimo. Così come è in realtà l'essere umano tutto, in uno dei più bei film di Kenji Mizoguchi, ad essere solo e alla ricerca di un riscatto che possa dare un senso ultimo alla propria condizione, allo stesso modo all'interno delle stesse figure dei 47 samurai che agiscono nel film c'è la graduale consapevolezza di essere non tanto privi di un padrone, quanto privi di un contesto; e quale privazione più assurda e contraddittoria se non quella che caratterizza questi uomini che prima ancora di essere uomini sono samurai, ovvero vivere in un Giappone senza guerra in cui cominciano ad essere visti come fantocci? L'innata tendenza all'onorabile violenza, che incontra e coincide con l'etos tradizionalista e quasi conservatore dei samurai, è la fonte di un travaglio interiore (che colpisce il protagonista, luogotenente della tenuta di Ako, di proprietà della casata degli Asano) che cerca di risolvere l'immortale contraddizione che inficia il proprio titolo di samurai prima e di ronin poi: capire perché la ragione del proprio stato umano non può verificarsi in un'era di pace, per antonomasia più coerente con l'idea di vita. E la figura del samurai, fatta inevitabilmente per combattere e difendere il padrone e le sue tenute feudali, proprio nel periodo di pace suddetto comincia ad essere beffeggiata, ridicolizzata, perché probabilmente non gode più di occasioni in cui poter mettere in mostra (nel senso positivo del termine) le proprie capacità, le proprie potenzialità, nell'ambito valoriale, nell'ambito del coraggio, così da affermare se stesso e prendere coscienza non solo della propria condizione di samurai ma anche della propria dignità in quanto samurai. Così i samurai di Asano non sono ronin perché privi di padrone (condannato a morte per un momento di debolezza in cui decide di uccidere, senza successo, un uomo che l'ha insultato, Kira, responsabile cerimoniere del palazzo imperiale), ma perché privi di posizione e di immagine in una società di inizio '700 che comincia forse a non sentire più il bisogno di simili pilastri di fedeltà e lealtà. Ma la lealtà di (alcuni) samurai di Asano è inscalfibile, tanto che durante tutto il film non sentiamo mai l'espressione "ronin" ma sempre "samurai" (con l'aggiunta eventuale di "senza padrone"), come a dire che i 47 guerrieri sono ancora attivi e agiscono per il rispetto di un padrone anche se morto. Tant'è vero che dopo aver portato a termine la loro vendetta, ai danni di quel Kira che aveva provocato Asano e che non aveva, nonostante questo, ricevuto danno alcuno, i 47 (in realtà alla fine 46) samurai accettano ben volentieri (con addirittura il sorriso) la strada che lo shogunato sceglie per loro, quella del seppuku, ovvero il suicidio "nobile" tramite katana (un suicidio nobile che verrà rivisitato anche più pessimisticamente dall'Harakiri di Kobayashi). E' quindi, quello dei guerrieri, un percorso di "alta" autodistruzione, un processo necessario e fuori tempo massimo che si rivela coerente fino in fondo, sotto qualunque (paradossale) punto di vista.
Questa è la motivazione profonda di Mizoguchi, che pure realizza il film nel 1941, ovvero in un periodo in cui per immaginare un film del genere non è necessaria una semplice contestualizzazione storica ma anche una totale immersione nella mentalità di un Giappone isolato dal mondo, dall'assetto peculiare di "microcosmo culturale": dare eccezionale dignità ai suoi protagonisti, al luogotenente Kuranosuke che vive tormentato tra la volontà di fare la scelta più difficile, ovvero cercare il dialogo per riottenere il castello di Ako requisito dallo shogunato, e la volontà più schietta e, come già detto, paradossalmente coerente, di vendicarsi e uccidere Kira. Simile conflitto interiore è raccontato dal maestro giapponese poi con una fenomenale cura nei confronti del pathos e della tensione emotiva: le immagini che lo interessano non sono le battaglie dei ronin o le eventuali sequenze spettacolari (che pure era lecito aspettarsi da una pellicola di quasi quattro ore), ma i dialoghi, i confronti emotivi/psicologici, le dinamiche (raccontate) degli eventi, poiché Mizoguchi è desideroso di evocare e rendere lentamente palpabili allo spettatore il desiderio di onore e di virtù che in questo film diventano improvvisamente qualcosa di vicino e prettamente umano e che oggi (come nel 1941) consideriamo dimensioni astratte e ad alto rischio di patetismo. Allo stesso tempo però, proprio perché interessato alle dinamiche degli eventi, di rado direttamente rappresentati ma spesso evocati tramite lettere, messaggeri e "voci" (un po' come avveniva nell'antica tragedia greca occidentale), il regista è anche molto geometrico e preciso nel suo racconto, tanto che quei valori e quei paradossalmente puri sentimenti si esprimono autonomamente, a partire dal semplice accostamento delle linee ferree e rigorose degli appartamenti (è un film soprattutto ambientato in interni, anche se ci sono una serie di virtuosistiche sequenze in esterni veramente splendide) e le linee ondulate e frastagliate dei corpi, che si seggono, stanno sempre a debita distanza l'uno dall'altro, alla luce di un galateo tutto orientale (per di più settecentesco, che Mizoguchi ricostruisce con l'occhio del filologo), discutono e riflettono su loro stessi e sui fatti avvenuti (vicini o lontani che siano), si osservano spesso con espressioni enfatiche e assai esplicite che rendono alla perfezione l'immediatezza delle interiorità e il pathos della cinetica emozionale, che evidentemente scorre tra un personaggio e l'altro; e neanche i quadri, sovente presenti in alcune zone dei muri di questi appartamenti o sui paraventi (una delle meravigliose scene iniziali), allegeriscono il rigore e la simmetria di spazi che sicuramente hanno influenzato l'Oshima de La cerimonia, specie in alcune sequenze, per esempio quella in cui uno dei ronin più umili esprime il suo disappunto nei confronti di Kira di fronte a un'alta personalità avversa, probabilmente uno shogun, che finisce per commuoversi.
Così Mizoguchi, come ha sempre fatto (raggiungendo vette anche più alte, da I racconti della luna pallida d'agosto, a Gli amanti crocifissi fino a Vita di O-Haru, donna galante, per non parlare de La strada della vergogna), rende coerente etica ed estetica così come sono coerenti e integre la personalità e la morale di questi uomini fuori da un mondo (il Giappone del '700) che è a sua volta fuori dal mondo, isolato nella sua cultura (già in quel periodo, decadente) e costruito sui suoi rigidi pilastri, anche se al punto (sottilissimo) di rottura, come se Mizoguchi ne ritraesse gli ultimi nobilissimi spasmi prima della dissoluzione. E questo elemento di discontinuità, questo punto di rottura, è dato probabilmente dalla figura femminile.
Mizoguchi ha sempre avuto un approccio significativo nei confronti della donna: qui essa ha una funzione regolativa che serve a contenere del marito parti che nessun'altro conosce e che permette agli uomini di trovare la giusta misura di fronte all'esibizione dei propri valori e delle proprie nobili pulsioni (come nell'emblematica carrellata in cui un ronin vuole correre per uccidere Kira, improvvisamente arrivato in una villa, e una donna cerca disperatamente di fermarlo strisciando dietro di lui e tenendolo per la veste, mentre i loro corpi sono accecati da una luce del sole filtrata dai bordi rigidi e retti delle finestre). Finché però appare un'altra figura femminile, dopo la lunga serie di mogli affrante e desolate (tra cui, soprattutto, la moglie di Kuranosuke, che non vuole abbandonare, finché può, il marito). Mizoguchi infatti poco prima della fine si concede venti minuti per un piccolo ritratto di donna, Omino, che francamente spiazza e colpisce anche più di quanto avrebbe potuto O-Haru: Omino è stata abbandonata dal ronin Jurouza che era intervenuto nell'assedio finale della casa di Kira, e penetra all'interno del complesso in cui i ronin stanno per essere condannati all'harakiri vestita da uomo e desiderosa di rivedere il suo promesso sposo. La sequenza in cui viene accolta in un interno sobrio e spoglio è animata da una cinepresa che si muove ansiosa e incuriosita e che cerca nei corpi immobili dei personaggi il sentimento, l'emozione, l'amore di Omino insomma, che pure scorre nell'aere ed è reso palpabile da quei movimenti di mdp. E quando Omino scopre che Jurouza (che pure ha fatto finta di non riconoscerla) ha conservato un plettro in ricordo dell'amore (per Omino) a cui lui ha dovuto rinunciare per i suoi doveri da samurai, Omino si ritiene soddisfatta e decide, prima ancora dei ronin, di compiere lei stessa seppuku, uccidendosi dietro un paravento. Le sue parole sono: l'ho fatto per trasformare una menzogna in una verità, cosicché anche lei, forse in maniera meno paradossale e più pura, è riuscita a trovare (sempre nella morte) il riscatto di una vita priva di riferimento perché improvvisamente priva di marito. Ed è un personaggio che se pure compare solo nell'ultima mezz'ora, gode di un fascino e di un carisma che solo certi personaggi letterari e quasi mai cinematografici sono mai riusciti ad evocare. Omino è lo zenit di un'opera che permane, e che pure è ricca di molte altre splendide sequenze (l'inizio, in cui all'ordine di un chiostro freddo e immacolato si impone il disordine della follia impulsiva di Asano; la scena del ballo, all'inizio della seconda parte, inframmezzata da una splendida scena in cui in un esterno Mizoguchi si appiccica virtuosisticamente alle figure dei suoi personaggi che si dimenano, combattono ma ben presto si sfiancano e rinunciano; la preghiera dei ronin di fronte alla tomba di Asano, una scena più statica di altre ma pregnante per l'ambientazione [la campagna innevata] e per le tematiche coinvolte) che rendono questo uno dei film più belli, probabilmente, dell'intera filmografia mizoguchiana. Purezza cinematografica, anche nella corruzione e nella decadenza.
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