Regia di Masaki Kobayashi vedi scheda film
Procedere a ritroso, risalendo dal convulso scontro finale di katana roteanti nel cortile e fra le solenni stanze del castello di Saito, signore della casata Iyi, fino al passo lento, doloroso, delle prime scene del film, è utile per avvertire fino in fondo Seppuku come canto di morte di un mondo che si espone in tutta la sua araldica solennità di
Merito di Kobayashi é lo smascheramento per gradi progressivi, e dunque tanto più rivelatori, di un collasso antropologico in atto. Siamo al tracollo morale di un sistema di potere poggiato per secoli sul formalismo estremo, per certi tratti aberrante, dell’etica del bushido, il codice d’onore del samurai.
Il grado altissimo di compromissione di quella società con tutte le devianze del potere, l’integrità esibita a coprire ben poco integre macchinazioni politiche, la tensione fra due visioni del mondo che s’intrecciano in una climax ascendente culminante nell’epilogo, tutto rivela di che lacrime grondi e di che sangue ogni scettro brandito da un individuo o da una classe per conto dell’umanità intera.
Riprodotta in forme simboliche nell’ambientazione storica del XVIIesimo secolo, appare sulla scena l’umanità di sempre, spietata e miserabile nella sua esibizione di forza, vile nella sua decantata integrità, ignobile nella condizione di sudditanza imposta al debole.
Uno contro tutti, Tsugumo (NakadaiTatsuya), é l’antagonista del potere, un ronin, samurai degradato perché privo di padrone e di ingaggi in un mondo che sta cambiando.
Diciassettesimo secolo, in Giappone inizia il periodo Edo con shogunato Tokugawa, la pace prospera oltre ogni aspettativa e la superba casta dei samurai, signori della guerra, perde quel ruolo che l’aveva resa centrale nei territori dell’Impero.
La disoccupazione dilaga, l’inurbamento si fa massiccio e le strade pullulano di ronin ridotti a salvare la giornata con espedienti di ogni genere. Sta nascendo la prima cellula di quel sottoproletariato urbano che, attraverso puntuali e prevedibili processi di riproduzione e crescita, diventerà la casta degli yakuza contemporanei.
Il racconto della triste vicenda della famiglia di ronin (Tsugumo, sua figlia, il piccolo nipote e Motomo, il giovanissimo genero figlio di un amico morto) riflette una situazione storica segnata da pesante disagio sociale, in un sistema feudale che sta rapidamente contando i suoi giorni nella totale assenza di una coscienza sociale e politica che sappia governare il cambiamento con giusti interventi e nuovi principi etici.
L’hara kiri, vocabolo dell’oralità a cui segue seppuku nella formulazione scritta, continua ad essere una scelta, una soluzione per non subire la vergogna del degrado sociale.
Il ronin bussa alla porta del ricco e potente e gli chiede asilo per svolgere quella delicata cerimonia, c’é un rituale da osservare, una procedura da seguire, non ci si può sventrare per strada, in definitiva.
Il più delle volte, però, la richiesta nasconde la segreta speranza di muovere a compassione ed essere ingaggiati dal signore.
E’ appunto quello che pensa Motomo, un giovanissimo maestro dedito alle lettere che la sorte ha privato prematuramente di padre e sostentamento.
Adottato da Tsugumo e poi sposato con la dolce figlia di lui, ha messo in un mondo di stenti e miseria senza speranza un piccolo marmocchio, ora malato e prossimo alla morte come la moglie.
Quello che accadrà nel cortile di Saito, alla presenza di tutto lo Stato Maggiore schierato con uniformi di alta ordinanza, lo racconterà Tsugumo, in un ampio flash back che procede a ritmo alterno e serrato col filo rosso della storia di cui é protagonista assoluto il ronin.
E' la storia di Tsugumo, l’uomo qualunque in un mondo che ha deciso di fare a meno di lui.
Caposaldo del genere fu La sfida del samurai di Kurosawa Akira, ma lì Yoijmbo, il protagonista, é un eroe vincente, un picaresco avventuriero vitale e muscolare che porta lo scompiglio nei paesi in cui passa, guadagna le sue tangenti prestando servizi ai partiti avversi, quindi va via per le strade del mondo a fare altri danni.
La denuncia é la stessa, e così pure le implicazioni sociali e morali, cambiano i toni, la tragedia euripidea e la commedia aristofanea parlavano linguaggi diversi pur lanciando le stesse invettive agli dei di cartapesta.
Tempo di espedienti, di uomini messi all’angolo, stretti fra rabbia e impotenza, costretti ad avvilirsi in impari tentativi di sopravvivenza contro le ingiustizie e le sopraffazioni, il periodo Edo aveva in sé i germi di un degrado che avrebbe allungato i tentatoli verso le età successive.
Grandi registi giapponesi del secolo scorso raccolsero il segnale e lo plasmarono a loro misura.
Nakadai Tatsuya, attore superbo che nulla ha da invidiare a Mifune Toshiro, il ronin per antonomasia del cinema giapponese, sa essere l’uomo che va oltre il suo tempo, con questo incarnando fino in fondo il senso che Kobayashi intende dare al suo film.
Come il grande interprete kurosawiano, Tsugumo tiene testa ad un intero corpo di guardia.
In un crescendo di violenza epica, quadri si succedono a quadri, la mischia converge sul fuoco centrale, il ronin infuriato,poi se ne distanzia, ricacciata ai margini dalla sua furia letale, compone un ballo di morte che ha la maestà di un’antica coreografia tragica, mentre il metro del racconto che si snoda per immagini é battuto dal tempo musicale di Takemitsu Toru.
Anni sessanta, per il grande musicista giapponese Johnn Cage é modello ispiratore, ma questi sono anche anni di recupero in chiave nuova di una tradizione molto antica, che sopravvive nella permanenza di strumenti tradizionali dentro l’organico orchestrale.
Quello che ne risulta é un impasto sonoro di preziosa rarefazione, un discorso musicale che non ha confini geografici, ma resta comunque fortemente ancorato alle sue radici, dando ritmo, simmetria e significanza alla scena in un contrappunto fra immagini e suoni del tutto inedito per il cinema giapponese fino ad allora.
In stretta sinergia con la musica, la mdp indugia con intenzione sugli squarci prodotti dalle armi, si attarda impietrita su mani insanguinate che imbrattano i preziosi pannelli dipinti che separano gli ambienti del castello, si ferma a fissare la sabbia impastata di sangue del cortile per poi tornare a roteare con i mulinelli sollevati in aria dalla furia della lotta.
Ed è così che un capolavoro dei generi Jidai-geki e Chambara, arrabbiato e violento,ricco del consolidato repertorio figurale e stilistico della migliore tradizione, punto di convergenza di tanta storia del cinema giapponese, nel mettere in scena una corrosiva critica sociale verso il formalismo del bushido e stringendo alla gola con l’impressionante descrizione della miseria del XVII secolo, oltrepassa i confini di tempo e di luogo diventando una riflessione sulla condizione umana ad ogni latitudine e approdando a Cannes nel 1963, dove vince il Premio Speciale della Giuria.
Kobayashi trae linfa per il suo lavoro da quell’immenso precursore che fu Kurosawa (il ’62, anno di Seppuku, é anche l’anno di Sanjuro, mentre La sfida del samurai é del 1961 e tutti discendono dai due Sugata Sanshiro di un ventennio prima) ma il suo sguardo é raccolto sul presente e le sue distonie.
In più occasioni Kobayashi ha portato l’attenzione di critica e pubblico sul valore di stringente attualità del suo film, ribadendo che Seppuku “ … non è un film in costume, è una pellicola attualissima, una critica feroce alla società moderna, all'ipocrisia dei potenti, alla mancanza non solo di pietà ma anche della tanto decantata correttezza nell'applicare il bushido”.
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