Regia di Miklós Jancsó vedi scheda film
“Oreste non può morire: è l’idea di libertà, di giustizia, di libertà” (dalla sceneggiatura di Gyula Hernadi)
Elettra, amore mio è una dell opere più intense e affascinanti fra quelle realizzate da Miklos Jancso nella sua lunga carriera di regista. Qui ritroviamo infatti intatte (peraltro amplificate alla massima potenza) tutte le tematiche che hanno reso unico (e soprattutto “necessario”) il suo cinema e che sono poi quelle di aver avuto la capacità di riuscire a drammatizzare le storie che ci ha raccontato sullo schermo attraverso la rigorosa analisi comportamentale (personale e collettiva) dei protagonisti dei suoi racconti per immagini. Comportamenti che, utilizzando spesso modalità di ascendenza brechtiana, tratteggia, trasla e quasi sublima utilizzando composizioni visive di assoluta rilevanza molto originali che lo aiutano a mettere in scena una personalissima allegoria della morte e della dominazione perniciosa del tirannico potere. Sulla soglia estrema dell’esistenza infatti , i suoi “eroi” quasi sempre sconfitti dagli eventi, sono chiamati ogni volta a denudarsi, a dichiarare (metaforicamente) la propria impotenza e la conseguente prostrazione per essere stati costretti loro malgrado, a sottomettersi al più forte pagando spesso con la vita la loro fiera opposizione che purtroppo però non è riuscita nemmeno a scalfire la logica subdola della prevaricazione.
Nella costruzione (davvero magistrale) di questo suo “racconto politico” per la prima volta ispirato e ripreso da un testo preesistente e non partorito da un’idea originale, il regista ha raggiunto un livello artistico davvero eccezionale che per più di una ragione, potrebbe addirittura essere considerato come una specie di sintesi (e di approdo) del suo lungo e tormentato cammino. L’opera è peraltro sorretta da un’altrettanto potente (e inedita) modalità di rappresentazione delle cose che si estrinseca in quella ricerca formale vivificata da uno stile molto rigoroso che è sempre stata una costante del suo cinema, che qui raggiunge l’apice assoluto persino inaspettato (un fatto almeno per me abbastanza sorprendente che mi ha colto di sorpresa perchè arriva dopo l’appannata, deludentissima esperienza italiana de La pacifista, il che mi porta a considerare che sia stato davvero poco costruttivo - e tutto sommato anche dannoso - il suo incontro non solo artistico con Giovanna Gagliardo e la cinematografia italiana - poiché dopo altre due pellicole abbastanza interessanti ma più di transizione come Agnus dei e Salmo Rosso, anche con il successivo Vizi privati, pubbliche virtù di nuovo frutto di questa collaborazione, le cose sono andate tutt’altro che bene il che mi porta a dire che il loro singolare sodalizio funzionò molto meglio solo nella realizzazione di due opere per la televisione come La tecnica e il rito e Roma rivuole Cesare ma comunque mai all’altezza delle straordinarie opere precedenti che avevano reso famoso Jancso).
Ma torniamo subito a questo componimento squisitamente cinematografico che è prima di tutto (almeno io lo interpreto così) una lunga dissertazione sulla tirannia, l’ingiustizia e il potere iniquo dell’oppressione ma che si sofferma ad analizzare anche il labile confine che esiste fra liberà e potere ancora una volta centrale nel suo cinema.
Per rendere chiaro e trasparente questo suo appassionato proclama, il regista si è infatti lasciato dietro le proprie spalle la “Storia” per inoltrarsi invece nella dimensione impervia del “Mito” (complice la tragedia greca) che è un cammino invero molto più accidentato e rischioso.
Una modalità di rappresentazione che gli ha però consentito di affinare ulteriormente il suo stile poprio adottaqndo a una forma abbastanza inusuale del racconto all’interno della quale è riuscito a trasfigurare tutti i personaggi del racconto in figure fortemente emblematiche dilatandone proprio la complessità strutturale attraverso l’uso sistematico di un labirintico percorso narrativo che gli ha permesso di innestare - sui motivi classici della tragedia greca appunto – non solo simbolismi e motivi allegorici cari all’avanguardia degli anni ’60, ma anche movimenti coreografici particolarmente coinvolgenti (grazie all’impiego di molti danzatori professionisti) che rimandano all’utilizzo del ballo e della pantomima come succede più facilmente nel teatro che è un altro elemento portante di questo suo lavoro, accanto però ad altre notevolissime composizioni visive e musicali di stampo prettamente cinematografico.
Operando in tale direzione, Jancso comunque continua a ricordarci per tutta la durata della pellicola che quella che stiamo osservando è la dimensione della rappresentazione, della ri-costruzione e ri-modellazione del reale e non il reale stesso (Giulio Marlia) e definisce di conseguenza un percorso narrativo dal quale è impossibile derogare che impone necessariamente l’utilizzo di forme espressive come l’allegoria e il simbolo (antinaturaliste per definizione) e delle quali viene fatto giustamente un uso costante.
Non è però soltanto questo il film. C’è infatti molto di più in questa parabola esemplare che qualcuno definì a suo tempo il risultato più maoista raggiunto dal regista e questo in virtù di una visione insolita e inusuale con cui la storia viene messa in scena e raccontata. Mi spiego meglio: nell’opera viene fatta un’articolata disamina (anche un po’ amara se vogliamo) dei vari orientamenti relativi al processo rivoluzionario (non va dimenticato che il film uscì nel 1974 quando era già cominciata la restaurazione che ci allontanava sempre più dalle lotte del 1968 e dai suoi aneliti di speranza così presto frustrati dagli eventi). Qui insomma nella dimensione visiva e interpretativa del regista, Elettra proprio attraverso la sua figura e le sue azioni diventa il simbolo (ma allo stesso tempo anche la metafora) delle enunciazioni (aspirazioni comprese), non solo della lotta rivoluzionaria tout court – la cui realizzazione pratica verrà demandata e si incarnerà nella figura di Oreste - ma anche della secolare lotta per abbattere il potere e la sua crudeltà. L’ostinazione e l’isolamento di questa emblematica figura, diventa nel film una vera e propria “dichiarazione di intenti” utilizzata per indicarci la strada più giusta da seguire affinchè anche nei tempi più bui, la rivoluzione (o meglio ancora la visione rivoluzionaria) rimanga attiva in modo permanente, in attesa che ritrovi nuova linfa vitale e possa essere così finalmente risvegliata e rigenerata dal letargo in cui è stata per troppo tempo confinata pronta per entrare di nuovo in azione (la morte e la resurrezione dei personaggi di questa storia, sta a simboleggiare proprio questo).
Qui i temi della giustizia e del potere rivoluzionario ad essa collegato raggiungono dunque un livello di decantazione estrema resa particolarmente evidente nella scena in cui Egisto – il tiranno – cerca inutilmente di far tacere Elettra che maledice il popolo per le sue menzogne, la sua acquiescenza e la sua sottomissione: non vi vergognate di mentire? Voi credete che valga la pena di mentire per tutta una vita, piuttosto che dire una sola volta la verità… Avete baciato i piedi dell’assassino. A che vi è servito ciò? Avete mentito con impudenza, per qual buon fine? Vi sete comperati la felicità e avete ricevuto in cambio la paura… Avete sperato la pace e vivete nel terrore. E’ valsa la pena?.
“Elettra afferma quello che neghiamo e nega quello che affermiamo; essa nega l’evidenza e afferma l’assurdo” (ancora dalla sceneggiatura di Gyula Hernadi)
La rigorosità dell’’assunto, la depurazione estrema dell’apparato scenografico (un’immensa, piatta pianura priva di vegetazione) è l’atro fattore distintivo della pellicola insieme alla laconicità dei dialoghi e alla circolarità dei movimenti non solo degli interpreti ma anche dell’obiettivo della cinepresa. Sommati tutti assieme, sono gli elementi che unificano e rendono conseguente lo svolgimento del racconto senza mai interromperlo nonostante il susseguirsi di sequenze plasticamente frammentate e che in forma spesso pantomimica, metaforizzano come meglio non sarebbe stato possibile fare, il labirinto dentro il quale i personaggi si dibattono restando comunque in un modo o nell’altro sempre in primo piano anche quando la cinepresa si sposta e indugia sulle linee tutte orizzontali dell’orizzonte sconfinato della pianura fino a perdersi nell’infinito, simbolo evidente di una libertà assoluta vicina ma fredda e irraggiungibile (quasi un miraggio o un’impossibile utopia) o si sofferma invece sui tratti essenziali di una semplice costruzione bianca (forse la reggia?) dai muri scabri e imbiancati a calce, che sembra dover assolvere alla funzione di un semplice punto di riferimento e di raccordo spaziale necessario per il movimento degli attori e della macchina da presa.
Le modalità di costruzione delle immagino sono le stesse alle quali il regista ci ha abituato: anche qui i prevalgono gli zoom (dei quali il regista fa un uso raffinatissimo) che ci permettono di seguire dall’intensità profonda di un primo piano esasperato fino alla lontananza più estrema e quasi straniante, di tutte le figure che popolano la scena.
Come sempre da manuale i suoi magnifici piani sequenza ormai diventati davvero proverbiali anche se purtroppo nella versione italiana sono stati un po’ sacrificati dalla censura di quegli anni che prese la decisione scellerata di accorciarli un poco (e quindi di mutilarli) apportando complessivamente ben 10 minuti di tagli e questo con l’intento di rendere il film più accettabile dal pubblico delle sale (sic).
Comunque (e nonostante tutto) sono proprio le novità espressive (ma anche narrative) che si trovano dentro a questa pellicola a conferire al film un’importanza anche didattica. All’epoca, si pensava che questa sua fatica potesse rappresentare una svolta evolutiva nella sua carriera che forse ci sarà anche stata, non lo metto in dubbio ma che a me è sembrata troppo ripiegata su se stessa, fino a rasentare a volte la maniera.
Questa rimane però per me solo un’ipotesi purtroppo non sufficientemente documentata perché abbiamo visto davvero molto poco (praticamente nulla o quasi) delle sue ultime produzioni girate in Ungheria perché totalmente (e colpevolmente) ignorate dalla nostra distribuzione nazionale. Il dubbio dunque resta ed è (purtroppo) tutt’altro che peregrino.
Sinossi (ATTENZIONE: SPOILER)
Dopo aver assassinato Agamennone, Egisto è diventato re e tiranno, ha reso schiavo il suo popolo d messo al bando il diritto alla verità. Elettra, figlia di Agamennone, rifiuta di sottomettersi e attende il ritorno del fratello Oreste dall’esilio, affinchè egli compia la giusta vendetta contro l’usurpatore. Dapprima dichiarato morto dal tiranno, Oreste invece riapparirà, ucciderà Egisto e libererà il popolo. Fratello e sorella, alfine giunti al potere, rivolgeranno le armi l’uno contro l’altro mentre nella scena finale si vedrà apparire in cielo un elicottero rosso su cui è scritto “rivoluzione”,
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