Regia di Wojciech J. Has vedi scheda film
Si può non crederci, però esiste. Il 3d senza il 3d. In senso ottico e mentale. Vertiginosi effetti prospettici e scenografici che tolgono il fiato, pur mancando di artificiosità tecnica e di qualsiasi solennità formale. Acrobazie narrative che non si avvalgono di alcun effetto speciale, né di alcun trucco di montaggio. Un incantevole caos, fiabesco ed allucinato, in cui è impossibile non perdersi, non smarrire il filo del discorso ad ogni frase. Eppure si tratta di un meraviglioso naufragio, che costringe ad abbandonare la logica per affidarsi interamente alla magia del caso; ed impone di rinunciare alle deduzioni per lasciarsi travolgere, istante dopo istante, da quella spericolata incoerenza che è l’invincibile potere della sorpresa. Il regista polacco Wojciech J. Has trae da un racconto di Bruno Schulz un film in cui niente ha senso: il tutto sembra messo insieme da una nube di atomi impazziti, pur conservando, miracolosamente, una nobile veste di letteraria arguzia ed artistico splendore. Il teatro di questo viaggio avventuroso oltre i limiti della ragione è un inferno/purgatorio/paradiso in cui tutto è assurdamente simultaneo eppure inafferrabile. Il tempo viene continuamente spostato all’indietro, mantenendo in vita coloro che, per il mondo terreno, sono già morti. Il mito viene deriso, però ogni cosa, lì intorno, è immersa in una dimensione puramente ideale, in cui il protagonista sogna l’amore perduto e sa di poterlo rincontrare, cercandolo in quella confusione tra al di qua e al di là in cui davvero si trova di tutto. Il luogo è abbandonato, invaso dalla vegetazione incolta, dai resti di antichi cimiteri, da ragnatele e macerie, eppure è incredibilmente vitale, pullulante di presenze e suggestioni folli, ma precisamente catalogabili, come una folla che celebri il carnevale, mentre si fa inventariare tra gli oggetti di un museo. Gli individui che la compongono sono pazzi; il piccolo universo in cui sono rinchiusi è una sorta di immenso manicomio a cielo aperto, dove vivono la propria condizione nell’oblio di ciò che sono stati: sono addormentati, oppure ipnotizzati dall’inganno che quella che li circonda sia la vera realtà. Sono pupazzi, statue, mummie, fantasmi, che pure, in qualche modo, vivono ancora nel pieno della loro storia di esseri umani. Intanto attraversano una giungla nebbiosa in cui tutto appare, contemporaneamente, vicino e lontano, animato ed inerte, come se la percezione sensoriale del movimento sfumasse, a tratti, nella sua controparte illusoria, quella prodotta dalla fantasia davanti ad un disegno. La scena è una caleidoscopica antologia di luoghi geografici, periodi storici, specie animali e vegetali, razze ed etnie. Un turbinio garbato, che concatena pacatamente i paradossi, senza mai infrangere quella perfetta fluidità che fa volteggiare la narrazione come un aggraziato passo di danza. La delirante frammentazione diventa armonia, amalgamata dalla delicata forza poetica di una fantasia slegata dalla sintassi dei simboli e delle metafore, ma anche dalla grammatica della trascrizione letterale: in questo modo, ogni oggetto del racconto può nascere a nuova vita, in un limbo inesplorato in cui non è né se stesso, né la rappresentazione in codice di altro. E dunque diventa, semplicemente, lo spunto per l’invenzione di significati inediti, e di insospettabili attinenze. Tutto è rigorosamente fuori, rispetto a ciò che è stato sancito e conosciuto, e soprattutto rispetto all’arco temporale limitato che abbraccia la realtà nota, e dentro al quale certi eventi non hanno trovato posto. Nello spazio, invece, esterno ed interno si rincorrono e si intrecciano secondo la psichedelica continuità delle geometrie di Escher, in cui linearità e ciclicità appaiono indistinguibili. Nel suo procedere a spirale, non si può dire se la matassa si srotoli o si ingarbugli, ma in fondo poco importa, visto che le direzioni sono tutte equivalenti, e nemmeno lo scorrere del tempo mostra di avere delle preferenze. Lo spettacolo consiste proprio nel modo in cui i tanti lembi sciolti, avviluppandosi intorno ad un vuoto concettuale, vengono fatti combaciare, per poi tornare a separarsi (vedi, a tal proposito, la sequenza del mercato delle stoffe). La conclusione è sempre temporanea, ed è il momentaneo punto fermo tra la morte e la risurrezione. Ogni istante è una creatura bifronte, che guarda al passato per presentargli il futuro; e di questo fertile dualismo fa parte anche la natura estetica di quest’opera: una fantasmagoria all’insegna della massima libertà, però ancorata ad uno scrupoloso realismo del dettaglio. Un quadro estremamente dinamico e ricco, attraversato da una penetrante vibrazione visiva, in cui si fondono bellezza e splendore, banalità e magnificenza.
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