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Él

Regia di Luis Buñuel vedi scheda film

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La recensione su Él

di EightAndHalf
9 stelle

La realtà è normale, la realtà è follia, la realtà è deformante. Si esprime attraverso vorticose volute architettoniche che sprigionano con la pura forza dell'emozione e dell'emotività frammenti di senno sparuti e confusi. Per rintronare e ripercuotersi come un'eco nelle pareti tondeggianti di una mente insana. El è uno dei vertici del cinema di Bunuel perché straordinariamente costruito intorno alla constatazione sagace e disincantata di un fatto reale grottesco e di per sé assurdo, forse vero proprio perché assurdo, e all'osservazione distaccata ma interessata di come questo stesso reale si sviluppa, si esplica, tramite i suoi personaggi. Eppure questo reale assurdo non è un dogma, non è un assioma, ma è frutto di un'esperienza diretta, quello della gelosia, un'esperienza vera che degenera senza che noi sappiamo dosarne la quantità, controllarne lo sviluppo, prevederne le conseguenze. Solo in una sequenza Bunuel penetra in termini di regressione stilistica all'interno della mente dell'insicuro Lui, Francisco, perché ciò che interessa è il rapporto lucido e al limite del cinismo di un caso umano vero e invero frequente. Non siamo di certo di fronte a un documento medico, a un referto psicanalitico che tiene a precisare moventi e ragioni di un male, ma siamo piuttosto nei pressi di un eccezionale dramma umano che fa dell'ambiguità del suo sguardo la stoccata finale contro il perbenismo, il bigottismo, le conseguenze stranianti delle convenzioni e il machismo come difesa della virilità. Il penetrare nella storia, da parte di Bunuel, se non nella sequenza finale in chiesa, che è un pezzo di cinema indimenticabile che inquieta e attanaglia la mente dello spettatore tanto quella del protagonista, è solo accennato da piccoli sguardi frivoli e sottilmente compiaciuti (il ricorso alle inquadrature dei piedi, dalla lavanda in chiesa all'inizio fino alle frequenti osservazioni dei piedi di Gloria da parte di Francisco), proprio per indicare come l'approccio sia effettivamente impersonale e voglia lasciare allo spettatore lo spazio per assumere un punto di vista, comprendere serenamente le posizioni caratteriali dei personaggi, ma al contempo sradicare una serie di certezze fin troppo date per scontate e che ancora oggi El riesce a svecchiare, essendo appunto un film aggraziato, splendido e attraente tutt'ora. La classicistica mise en scène è solo un'apparente riduzione del talento del regista spagnolo, che fin da Las Hurdes sa cogliere l'assurdo e il terribile dell'uomo e del mondo dalla semplica constatazione della realtà, e nel contemplare il piccolo mondo borghese raccontato da El, con tutte le sue abitudine e tutte le sue movenze, Bunuel rivela l'inconfessabile, il marcio e al contempo il normale che si cela dentro l'uomo affondato dall'educazione e da un mondo che educa al "possesso" e alla sicurezza in se stessi. Non perché Gloria nelle mani di Francisco diventi un oggetto su cui esercitare il proprio maniacale controllo, ché il film non è sulla mercificazione dei sentimenti, ma perché il sentimento di Francisco è vivo e sincero e in fondo straordinariamente umano, più umano del ridicolo personaggetto di Raul, che interviene come deus ex machina per ascoltare lo sfogo di Gloria contro il marito compulsivo e a poco a poco sempre più pericoloso, più umano del maggiordomo, che lucida il favore del suo padrone per essere sempre ben accolto e sfuggire al licenziamento che Francisco sembra spesso minacciare, più di tutti i personaggi che lo circondano (forse a eccezione della vittima Gloria), assimilati e conformati a usi e costumi parassitari che privano l'essere umano di una sostanziale vitalità, di una vitalizzante ebbrezza. Tanto che il film si solleva dalla già citata classicistica mise en scène quando compare il personaggio di Francisco, interpretato stupendamente da Arturo de Cordova, quando compaiono i suoi sguardi paonazzi, le sue mani ad artiglio, il suo imponente/impotente corpo massiccio, e quando le scelte musicali di Luis Hernandez Bretòn si innalzano tese e sconvolgenti a enfatizzare piccoli movimenti, piccoli accenni, piccoli andamenti, che rivelano come ancora la follia esista ancora, ma sia una follia da osservare con un certo bizzarro compiacimento, perché su questa si costruisce questo cinema, su questa si costruisce il fascino mortuario ed eversivo dell'ebbrezza vitale, su questa si può esprimere una straniante e straziante accusa contro un sistema umano falsamente rigoroso (come ben esprime la regolarità dei lineamenti dell'interno della chiesa, in cui per giunta avviene il morboso colpo di fulmine). Non c'è condanna, da parte di Bunuel, né inno al vittimismo: fra misantropia, incubo e paranoia, El scorre come un fiume in piena sull'apocalittica fine di un pensiero, di una normalità, per cedere il passo a piccoli nuovi dignitosi - nonostante tutto - anfratti di follia che si rispecchiano nelle linee gaudiane della casa di Francisco, nei forti effetti di luce ed ombra di molte scene di interni, nel disagio di fronte al confronto relazionale dei due protagonisti, nello stile registico sottile, eloquente e sovversivo che Bunuel utilizza per incenerire le nostre convinzioni.
Luis Bunuel è la gioia di ogni cinefilo, stridente musica sacra che parla dentro di noi per sempre. 

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