Regia di Luis Buñuel vedi scheda film
"Non c'è nient'altro che tenga svegli meglio del costante pensiero della morte. Preghiamo Maria per il riposo dell'anima di...". Dietro la scorza documentaristica, Bunuel sferra un attacco mascherato da indignazione sociale nei confronti di un mondo assurdo e disumano, sia dal punto di vista prettamente sociale, appunto, ritraendo le terribili condizioni di vita degli abitanti delle Hurdes, sia dal punto di vista esistenziale, per cui il motore di queste persone diventa unicamente la sopravvivenza e il costante pensiero della morte. Non è un caso che l'unica costruzione elegante e in buone condizioni, in quelle regioni in cui a malapena a maggio e a giugno si riesce a mangiare a causa delle mancate riserve di fagioli e patate, sia la chiesa, l'insieme di tutte le strutture religiose, elementi dissonanti in un contesto arido e spoglio, osservato nei suoi andamenti "civili", per quel che poteva la civiltà di fronte alla pura disperazione. E ancora, dietro quella voce fuori campo, che definisce in maniera così asettica e indifferente il discorso inerente le terribilità mostrate, Bunuel lascia grande spazio alle immagini, attraverso le quali ritrae i volti dei singoli individui, estraendone il semplice e "candido" senso di rabbia, di gelo, di fame. La rassegnazione non è di casa, si è sempre attivi, nelle Hurdas, sempre coinvolti in quelli che sono i riti collettivi, dai più "socialmente accettati" (le credenze religiose e cattoliche) a quelli più barbari (come quello per cui alcuni individui devono colpire con dei bastoni un tacchino legato per i piedi), e non è un caso che entrambi i tipi di riti sono costantemente associati, mai rigidamente distinti ma strettamente connessi: poco tempo prima, d'altro canto, Bunuel aveva legato due attori vestiti da preti ad un pianoforte e che in maniera surreale e visionaria venivano trascinati via, così come aveva mostrato gli strani giochi di gravità che colpivano degli uomini di Chiesa all'interno di una stanza in quell'Age d'or che tanto aveva fatto scandalo, e che con Un Chien Andalou è diventato un classico del surrealismo cinematografico. La decisione di realizzare un documentario-reportage di uno stralcio di mondo, subito dopo, può risultare bizzarra e assurda (e già questo sarebbe paradossalmente coerente con la giovanile follia del grande regista spagnolo), ma anche considerandolo un documentario, è impossibile non notare in Las Hurdes quell'attenzione semi-espressionistica nei confronti delle situazioni, quella curiosa volontà di osservare e di dialogare animatamente (e ferocemente) con lo spettatore, quel portamento che cede spesso all'invettiva (puramente visiva, perché la voce descrive situazioni e non fa nient'altro, un po' come in Le sang des betes di Georges Franju), tutti quei dettagli così evidenti e così eloquenti da lasciare trapelare pur sempre quel gusto particolare per il Surrealismo: non è certo un'indagine vuota e prettamente rappresentativa quella con cui Bunuel mette in scena il trasporto del cadavere del neonato, trasportato sulle acque di un fiume per permettergli una sepoltura nel cimitero più vicino (a ore di viaggio), neanche fossimo nella sicilianità dimenticata di Vittorio De Seta. Poi dalle didascalie finali si rivela la grande partecipazione storico-politica di Bunuel, attento sempre alle dinamiche storiche e senza alcun tipo di riserva intento a lanciare una grande frecciata nei confronti dello stato dittatoriale di Franco e di tutte quelle politiche fasciste e naziste che si diffusero in Europa in quegli anni e a cui si opposero in maniera coraggiosa alcune personalità che poco riuscirono a fare, che poco riuscirono a risolvere, che poco riuscirono a portare a termine. La situazione delle Hurdes, per Bunuel, è decisamente irrisolvibile: non si pensa ad altro se non alla ventura morte.
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