Regia di Luis Buñuel vedi scheda film
Documentario che segue Un chien andalou e L’age d’or e segna anche la fine del periodo programmaticamente surrealista di Luis Buñuel. L’interruzione dei suoi rapporti con Salvador Dalì, d’altra parte, aveva chiuso l’avventura intellettuale parigina, senza cancellarne le tracce, che in ogni caso sarebbero rimaste profondissime, visibili anche qui.
Al suo ritorno in Spagna, il regista fu indotto da una lettura a interessarsi dei piccoli villaggi della regione delle Hurdes, a soli cento chilometri a ovest di Salamanca. Era stata la tesi di dottorato del direttore dell’Istituto francese di Madrid, Maurice Legendre, a rivelargli ogni aspetto di questo territorio miserabile, primitivo e fuori dal mondo civile, la Tierra sin pan del titolo originale.
Col modesto budget delle 20.000 pesetas, offerte dall’amico anarchico Ramon Acin, che le aveva vinte alla lotteria ed era ben lieto di contribuire al film, il regista riuscì a portare a termine il tournage in soli due mesi.
Il risultato è un breve e impressionante documentario che descrive la durissima esistenza degli abitanti dei villaggi ai piedi dei monti dell’Estremadura, che vivono, ignorati dal resto del mondo, in una condizione non solo di profonda povertà, ma anche di promiscuità e degrado, nella sporcizia e nella totale inosservanza delle più elementari norme igieniche, fra insetti e animali da cortile. I bambini, che si dissetano alle acque infette e maleodoranti del torrente – inquinato dagli animali – si ammalano gravemente e muoiono presto; molti portano anche i segni fisici della deriva genetica, provocata dai frequenti accoppiamenti incestuosi: sono diffusi il cretinismo, il rachitismo e i gozzi.
La fame è una triste compagna di queste popolazioni, al punto che i maestri della locale scuola sorvegliano che i piccoli tozzi di pane raffermo – che essi stessi portano ai loro scolaretti – non vengano loro sottratti dai genitori.
Tutta la vita, persino la sepoltura dei morti, è una fatica improba per questa popolazione congenitamente debole e ulteriormente sfiancata dalle malattie e dalla malaria.
Le scene famosissime dell’asino distrutto dalle api fuoruscite dall’arnia che sta trasportando, o della capra che precipita da uno scosceso dirupo ci dicono che il male di vivere è per tutte le creature, in questi luoghi maledetti:
il documentario lo preannuncia, aprendosi con una scena violentissima da una festa di matrimonio ad Aberca – l’ultimo paese prima di Las Hurdes – durante la quale gli uomini a cavallo cercano di strappare la testa di un gallo vivo appeso per i piedi a una fune che attraversa la strada, rispettando un rito feroce e barbarico.
Si avverte fortissima la polemica contro la società immobile nella quale nessuna imiziativa viene presa per cambiare le cose – non certo immutabili per natura – nonché contro la Chiesa, che ha abbandonato le popolazioni dopo averle depredate nei secoli dei loro beni (ciò di cui l’intero territorio reca le tracce) e contro lo stato spagnolo che ha aperto una scuola in cui si insegna ai bambini che dovranno, prima di ogni altra cosa, rispettare la proprietà altrui… La speranza che alla denuncia seguisse qualche intervento del governo repubblicano da poco insediato (1932) non si realizzò: i repubblicani ritennero il film lesivo della reputazione nazionale, con un atteggiamento non dissimile da quello che avrebbero assunto i franchisti al termine della guerra civile.
Il film non ebbe alcun ritorno economico: Ramon Acin non vide più i suoi soldi: morì ucciso, infatti, dai franchisti nel 1936 insieme alla moglie; solo molto più tardi Luis Buñuel fu in grado di restituire le 20.000 pesetas alle due loro figlie.
Un documentario realistico segue dunque i due primi film in cui l’inconscio e il delirio onirico sembravano aver aperto altre prospettive al cinema?
Le spaventose immagini di Las Hurdes presentano certamente tratti realistici, ma di un realismo che definirei grottesco, vicino all’ultimo Goya e alla tradizione popolareggiante di molta pittura spagnola, anche in seguito fonte di citazione nel cinema buñueliano.
Aggiungerei che questo film, anzi, ribadendo l’interesse del regista per il mondo degli animali, degli insetti e anche per gli oggetti collegabili a un modo di vivere primitivo, raduna qui un importante repertorio iconografico, preziosa riserva sia di immagini simboliche, sia di idee per i film successivi.
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