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Un condannato a morte è fuggito

Regia di Robert Bresson vedi scheda film

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La recensione su Un condannato a morte è fuggito

di ed wood
8 stelle

Sei anni dopo "Diario di un curato di campagna", Bresson prosegue la sua ricerca in direzione di un cinema essenziale, depurato dalle pastoie teatrali, pittoriche e letterarie. Tre anni più tardi, avrebbe raccolto i frutti con "Pickpocket", che inventa non tanto il cinema moderno, quanto quello contemporaneo (tanto era "avanti" nel concetto e nella messinscena, anche rispetto alla coeva nouvelle vague). "Un condannato a morte è fuggito" è ammirevole per come prosciuga la materia carceraria da ogni enfasi melodrammatica, da ogni retorica morale o politica, da ogni psicologismo spicciolo, dal gusto fine a se stesso della narrazione e, ovviamente, da ogni tentazione spettacolare o catartica. Particolarmente riuscito, a differenza di "Diario di un curato di campagna", è l'intarsio fra parola ed immagine. La voce fuori campo, con cui il protagonista espone i suoi pensieri, è presente, ma molto più calibrata che nel film precedente. E soprattutto è perfettamente integrata, "giustapposta" (per utilizzare una terminologia cara allo stesso Bresson), al flusso di immagini, sapientemente levigato da discreti movimenti di macchina e scolpito da un montaggio estraneo ai canoni estetici classici. Bisogna infatti chiarire un equivoco. Non è che il "cinematografo", per essere "puro" (come voleva Bresson), debba escludere o mortificare la parola! Essa fa parte del linguaggio filmico, esattamente come l'immagine e il suono. D'altra parte, se il cinema fosse rimasto muto, Bresson avrebbe certamente continuato a fare il pittore. In "Un condannato a morte è fuggito" si delinea in maniera compiuta quella forma-sostanza bressoniana, dove ogni elemento del cine-linguaggio guadagna senso in relazione al precedente/seguente, dove tutto ciò che si vede e si sente è funzionale all'espressione di una verità ben più profonda di quella esposta dal racconto e dai personaggi: una verità, nascosta/rivelata da gesti, sguardi, mosse, oggetti, che non viene mai data in pasto allo spettatore, richiedendone piuttosto la partecipazione attiva. Non mi dilungo sulle ben note caratteritiche/qualità del cinema di Bresson, sul suo geniale utilizzo del sonoro, del dettaglio, dell'ellisse, del fuori-campo etc...Mi soffermerei piuttosto su un aspetto che emerge dalla sofferta conquista della libertà da parte del protagonista (straordinariamente abulico ed "inespressivo", come richiedeva e spesso otteneva il maestro). Egli non è altro che un uomo. Un uomo come il pastore protestante, come il misterioso "aiutante" Thierry, come il vecchio disilluso vicino di cella, come Orsini, come il giovane compagno di fuga. Ciascuno di loro ha idee diverse sulla propria prigionia, nonchè sull'esistenza stessa (essendone il film una naturale allegoria: per Bresson, vale l'equazione vita-prigione, in un mondo dove gli oppressori sono voci e rumori la cui fonte è illocalizzabile e la cui assenza di grazia è esemplificata dall'assenza di donne). Ciascuno di questi uomini rappresenta i diversi modi, tutti giusti poichè tutti umani, di reagire alla propria infame condanna: la disperazione, la fede, l'ostinazione, l'orgoglio, il coraggio, il cinismo etc...Ogni uomo è solo con la propria condizione e con la propria morale, frutto di scelte determinate dal caso (o di un caso indotto dalle proprie scelte?). Al conforto che il pastore afferma di provare con la lettura della Bibbia, il protagonista replica: "Io lavoro". In questa frase, c'è tutto il rifiuto di un dogma percepito come sterile, futile, la negazione di una Fede trascendente, astratta; un cucchiaio, una spilla, un corda, un gancio, la pura concretezza di oggetti e gesti pazienti, faticosi, meticolosi, l'ingegno e la fiducia nei propri limitati mezzi, contano di più che mille parole edificanti. Se c'è una grazia, questa è nelle cose, nei fatti. Nella materia. E nelle persone. L'isolamento degli uomini è rotto dalla necessità di un contatto, di uno scambio, del reciproco aiuto. E' il continuo confronto col "l'altro" a dettare i pensieri del protagonista, a guidare il suo percorso morale: un confronto che può comportare tanto l'intesa quanto il rifiuto, ma che è imprescindibile per forgiare la propria coscienza. Da soli, si è perduti, non si comprende il senso delle proprie azioni, non si rafforzano/ridimensionano le proprie intenzioni, si rimane fragili e insicuri; affacciarsi al "prossimo", arricchisce se stessi e gli altri, espone al Male e alle sue trappole, ma permette di scovare, fra tanta ostilità, la via per la salvezza.    

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