Regia di Robert Bresson vedi scheda film
"Logorante" è la parola chiave, che accompagna fedelmente la visione di questi cento minuti di pellicola: Bresson, giunto al suo quarto lungometraggio, esaspera la componente statica e riflessiva dei suoi precedenti lavori e mette in scena un'opera profondamente drammatica che indaga attorno al concetto di 'fuga'. Non tanto la storia di una fuga, ma della fuga, dell'idea eterna di ricerca - ad ogni costo e con ogni sforzo umanamente concepibile, concreto e mentale - della libertà. Logorante, si diceva: lo è lo scorrere, lentissimo, del tempo nella cella di prigione; lo è il pensiero di affrontare la prospettiva di un'esistenza vana (la condanna a morte è il logorìo massimo, in questo senso); logorante, ancora a livello interiore, è il desiderio di evasione che il protagonista vede concretizzarsi a passi minuscoli, neppure giorno dopo giorno, ma minuto dopo minuto. Seguiamo tutto questo insieme a Bresson, il cui sguardo si fa quasi documentaristico (per quanto di finzione si tratti, è pur sempre un film tratto da una storia vera, da un racconto di Andrè Devigny), totalmente trasparente, lontano anni luce dagli artifici classici della messa in scena cinematografica e attento principalmente ai pensieri e alle azioni del suo protagonista, ma senza prenderne mai parte, senza farsi mai partecipe, foss'anche solo emotivamente. Una trasparenza che è amplificata poi dalla voce narrante in prima persona, che scandisce il ritmo della storia, basso, molto basso, quasi esasperante: sempre all'unisono con il logorante procedere delle (sens)azioni del condannato. Sceneggiatura firmata dal regista, che conferma la propria, personalissima tensione verso un cinema individualista e fideistico, profondamente umano, ma di un'umanità colma di speranza e, appunto, fede: non sarà la fede religiosa di una Conversa di Belfort (1943) o di un Curato di campagna (1950), ma quella del condannato è una fede nella libertà che ben si accosta alle due appena citate, come a quella nell'amore (o, meglio, nel ritorno dell'amato) da parte della protagonista di Perfidia (1945). Tutti personaggi, vale la pena di notarlo, assolutamente negati all'eroismo, ma che sono chiamati a combattere in una missione solitaria e troppo grande per loro: tutti tranne questo Condannato, che finalmente realizza concretamente l'impresa sfiorata dalla Conversa e dal Curato, e neppure accarezzata, suo malgrado, da Helène di Perfidia. Sotto questo punto di vista, il quarto film di Bresson esplicita la concezione di 'speranza' che nei precedenti lungometraggi del regista francese veniva soltanto accennata. Bravissimo l'intenso François Leterrier, che però non avrà molta fortuna nella sua futura carriera di attore. Scarne, ma solenni le musiche: Bresson opta per la Messa in do minore di Mozart. 6,5/10.
Condannato al carcere per un attentato politico, non si arrende e tenta di evadere. Ripescato e rimesso in cella, questa volta con un ragazzino. E in attesa dell'esecuzione della condanna a morte: ma lui prova ancora a evadere.
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