Regia di Robert Bresson vedi scheda film
Che cos’è il cinema? Ritmi, e al tempo stesso, rapporti, incrociarsi di rapporti, di opposizioni, di colpi, di scambi tra una immagine e tutte le immagini, tra una immagine e il suono e ancora: Film cinematografici dove le immagini, come le parole del dizionario, non hanno potere e valore che per la loro posizione e relazione. Sono parole di Bresson queste, che a mio avviso possono fare da magnifico corollario proprio a Un condannato a morte è fuggito, che è il primo film per il quale il regista non si avvale di un sottotesto di scrittura ad opera di un letterato vero e proprio (Jean Giraudoux per La conversa di Belfort, un episodio tatto da Jacques le fataliste di Diderot con i dialoghi scritti da Cocteau per Les dames du Bois du Boulogne, il romanzo omonimo di George Bernanos per Diario di un curato di campagna), ricorrendo invece a una vera storia di vita vissuta.
Il punto di partenza è rappresentato infatti questa volta dal breve racconto di memorie Récit d’une évasion, pubblicato da André Devigny su Le figaro littéraire del 20 e 27 novembre del 1954 (il più complesso e composito libro-diario che esporrà la cronaca dettagliata e definitiva della detenzione e della fuga scritto dallo stesso Devigny, era infatti ancora in gestazione quando Bresson ha organizzato la sua sceneggiatura, e quindi “sconosciuto” al regista che ne avrebbe preso visione, una volta dato alle stampe, solo successivamente, come testimonia per altro lui stesso con una lettera inviata a Giorgio Tinazzi: Il libro sullo stesso argomento è stato scritto da Devigny mentre scrivevo la mia sceneggiatura tratta dal racconto. Non ne ho avuto conoscenza che più tardi. Ciò a conferma del fatto che, pur sulla traccia del canovaccio, Bresson ha potuto lavorare in piena autonomia anche se nel totale rispetto dei fatti (la fuga quasi “impossibile” di un partigiano francese dal carcere nazista di Montluc poco tempo prima che venisse eseguita la sua sentenza di morte, un fatto eclatante che rappresenta anche un importante, significativo episodio della Resistenza francese).
Bresson analizza e trasla l’avvenimento con il suo sguardo analitico, per trasferirlo in un’opera di straordinaria tenuta anche emotiva, che contiene una delle sue più convinte dichiarazioni di fede nelle capacità umane (l’ultima forse nella quale si ritrovano evidenti tracce di speranza, prima che cominciasse il lento viaggio nella disillusione iniziato con Pickpocket e che lo porterà ad esprimere l’agghiacciante pessimismo che non risparmia più nessuno della sua ultima opera, Il diavolo probabilmente: “quello che mi ha spinto a fare questo film – dichiarerà in tale occasione – è lo spreco che si fa di tutto. E’ questa civiltà di massa dove ben presto l’individuo non esisterà più. Questa folle agitazione. Questa immensa impresa di demolizione dove moriremo per colpa di ciò per cui avevamo sperato di vivere. E’ anche la stupefacente indifferenza della gente con l’esclusione di alcuni dei giovani più lucidi che mi porta ad esprimere tanto scoraggiamento… e se si pensa che sono concetti espressi nel 1978, avvertiamo il disagio profondo di non aver davvero compreso in tempo il pericolo e preso in seria considerazione l’avvertimento: queste profetiche parole ci fanno venire davvero la pelle d’oca – e non potrebbe essere altrimenti - perché si può dire veramente che “avevano già previsto tutto” e ci caricano di conseguenza sulle spalle tutto il peso delle nostre responsabilità anche individuali per ciò che l’umanità e diventata nel frattempo).
Questa storia è vera. Io la racconto com’è, senza inutili ornamenti. E’ la frase che apre il film e lo caratterizza (Bresson ha una concezione severa e spoglia del linguaggio cinematografico: una sorta di calvinistica, gelida, distaccata osservazione del mondo e degli uomini è la definizione che di quel cinema ne da Bruno Venturi), e che precisa ancora una volta la concezione che il regista ha del reale: il fatto, l’accadimento rappresentato, è per lui il pretesto reale, ma proprio per questo perfettamente ricostruito, finalizzato cioè a un discorso progettuale che si sviluppa in molteplici ambiti con un lavoro di scavo che penetra nelle maglie dell’intreccio per coglierne l’eco nascosta, le rifrazioni interne, che si disvelano proprio attraverso la sua dissezione scarnificata delle immagini. Sappiamo infatti come le ricerche di Bresson si siano sempre mosse essenzialmente nella direzione prioritaria del linguaggio e dello stile (senza tralasciare il contenuto però), e allora, ragionando proprio in quest’ottica, si può ben dire che a quel punto del suo percorso artistico, Un condannato a morte è fuggito rappresenta indubitabilmente il frutto più meditato e maturo di quella sua ricerca infaticabile e assidua, e anche una vera e propria opera che definisce una paternità univoca e assoluta (la sua), visto che è lui che ha scritto anche il soggetto, la sceneggiatura e i dialoghi arrivando così a coronare l’aspirazione che aveva più volte auspicato di poter realizzare concretamente: Un film deve essere opera di uno solo e deve essere capace di far entrare il pubblico nel mondo di questo “uno”, cioè nel mondo che gli è proprio e che ha voluto esprimere.
Se Il diario di un curato di campagna poteva rappresentare dunque una mistica contemplazione della morte, si può invece affermare che con Un condannato a morte è fuggito, Bresson sviluppa al contrario il proprio personale discorso sull’inesprimibilità della vita, dove ogni azione è sospesa e indecifrabile come nel divenire inarrestabile dell’esistenza stessa.
Fuori dai canoni eroico-celebrativi della Resistenza, con questo film Bresson cerca (e trova) la distanza dal genere, prima di tutto sul piano narrativo (i riferimenti storici sono minimi) e poi e soprattutto, a livello artistico-tecnico. Si può allora ben dire che non è un’opera sulla Resistenza, ma bensì della Resistenza, con tutte le connotazioni anche tragiche (esistenziali e non) che ne conseguono e che tale movimento comportò. Il riferimento più diretto alla Resistenza stessa, che non è un fatto né secondario né casuale, riguarda infatti semplicemente quell’avvio asciutto ed austero che inquadra la lapide commemorativa del carcere in cui è stato detenuto il prigioniero: il seguito sarà contrassegnato solo da accenni allusivi e da presenze evocative fortemente connotanti, come ad esempio gli elmi tedeschi costantemente in primo piano.
Il film è dunque essenzialmente la storia, (o meglio la cronaca interiorizzata, il diario progressivo espresso senza compiacimenti o indugi), della preparazione di una fuga e della conseguente, riuscita evasione, dopo un primo tentativo irrazionale ed istintivo, miseramente fallito proprio perché non sorretto e diretto dall’intelligenza della ragione. E il regista enuclea (estrae) con chirurgica precisione i gesti e i pensieri del prigioniero Fontaine sui quali induce anche noi spettatori a concentrarci, traducendo gli uni e gli altri, in una “asettica” successione di momenti e dettagli (di oggetti, di parti del corpo) che gradualmente si compongono non nella concretezza della prigionia vera e propria, ma nell’astrazione dell’idea della fuga che diventa l’obiettivo primario da conseguire, e che come scrisse a suo tempo Adelio Ferrero, rappresenta la rivalsa e la sfida paziente dell’intelligenza e del coraggio – della pratica dell’intelligenza e del coraggio – contro l’umiliante brutalità di un potere che può imporsi solo in quanto potere, il tutto affidato soprattutto alla forza dirompente delle immagini.
Bresson ci mostra un uomo quasi sempre solo tra le pareti nude della sua cella (che non vedremo mai nella sua totalità, ma scomposta e selezionata in spazi parziali), realizzando così un film fatto sopratutto di gesti e di oggetti, come ho già accennato, dove sembra che siano i sentimenti a spingere i fatti, e non viceversa, che è la conferma pratica di come (ed è ancora Ferrero a sottolinearlo) la pretesa confessata da Bresson alla vigilia delle riprese di voler raggiungere il vero attraverso il vero, non fosse una velleità ma il risultato ponderato di un progetto lungamente meditato.
Una fuga dunque che si realizzerà con successo quando il progetto sarà tradotto in un piano minuzioso e calibratissimo che rappresenta anche il rapporto metafisico che un uomo ha con l’dea di libertà, ed è proprio questa esperienza meticolosa e sorvegliatissima che assume il senso di una sfida dell’intelligenza e del perseverante coraggio dell’individuo teso a superare gli ostacoli più insormontabili e gli accadimenti più imprevedibili, che conferisce all’opera la sua singolare suggestione.
Il film è un mistero. Il vento soffia dove vuole… e se davvero il vento soffia dove vuole (il film è conosciuto anche con questo titolo) si può ben osservare che, pascalianamente, hanno valore pensiero e volontà, coincidenti con una coscienza morale, con un’azione che è in fondo l’espressione di un rigore e di una libertà interiori, non piegati cioè dalle insostenibili, orribili oppressioni del carcere terreno. Per il protagonista rappresenta anche la fuga dalle proprie debolezze e lo scontro fisico con la durezza delle cose. Ma con queste parole Bresson ha voluto certamente esprimere anche il carattere religioso, intimistico della sua opera: Fontaine è un predestinato che ingaggia la sua lotta contro una prigione esistenziale imposta e violenta, ma qui la “Grazia” che lo sostiene è per fortuna ancora possibile e disponibile (non lo sarà più invece, come abbiamo visto, nei suoi film successivi, tanto che si può confermare che quest’opera rappresenta uno degli ultimi - se non a dirittura l’ultimo in assoluto - degli sguardi fiduciosi del regista sul mondo mentre lentamente l’ottimismo propositivo si sgretolava verso l’amara disillusione secondo l’analisi che ho già fatto prima).
E’ proprio per questa ragione credo che anche nella presentazione stessa del carcere, vengono evitati accuratamente i modi di un inquadramento oggettivo e la a prigione è sentita e vissuta invece anche nella forma, soprattutto come una presenza vincolante e limitatrice: alte mura di un bianco abbacinante racchiudono l’uomo in uno spazio ristretto e soffocante (la cella di Fontaine, i corridoi, il fossato della cinta inquadrati dall’alto) fra le opprimenti ombre di inferriate e di sbarre e il silenzio carico di risonanze o di rumori secchi e lancinanti, persino disturbanti come quelli prodotti dalle chiavi del secondino che scorrono lungo la ringhiera delle scale.
La staticità del tempo e dello spazio, l’immanenza imposta delle situazioni, sono rese dalle inquadrature ripetute e dilatate da continue dissolvenze: circa 600 inquadrature che si alternano nella quasi totale assenza di veri e propri piani sequenza, con un lavoro complesso di “decantazione”. Se si considera che dei 60.000 metri di pellicola girata, il montaggio definitivo ne utilizza soltanto 2.500, si rileverà la fondamentale importanza di questo certosino intervento di “ripulitura,” che agisce per sottrazione sul fluviale girato, fino ad arrivare a una dosatura calibrata necessaria per dare corpo ai due parametri indispensabili da rispettare in ogni pellicola effettivamente compiuta: la tensione e il ritmo.
I legami stessi tra le sequenze, si alternano fra continuità e stacchi, associazioni, concisioni , cesure e allentamenti, che creano fra loro varie e differenziate forme di collegamento: libero, quando le inquadrature non hanno un rapporto di consequenzialità in senso stretto; dipendente, quando lo sviluppo è fornito da un filo continuo o di contrapposizione, anche se non sempre immediatamente percettibile.
Il crescendo dell’azione, conosce così diluizioni che a volte sembrano contraddirlo, tanto che spesso le immagini che servono alla progressione del racconto, diventano significative soprattutto per i mutamenti che si verificano all’interno di esse, e indipendentemente dal collegamento diretto che hanno con i fatti rappresentati, come per esempio la caratterizzazione dei personaggi che avviene con una modalità un po’ anomala e singolare, che potrei definire non interessata a risultare realistica in senso lato: nonostante il passare delle settimane, il protagonista continua ad indossare la stessa camicia sporca di sangue e la sua barba è sempre una barba di due giorni.
Si giustificano così anche le molteplici sospensioni che si avvertono quando la macchina da presa si sofferma insistendo sugli oggetti o sugli ambienti per coglierne solo dei “frammenti” che aiutano però a definire un ritmo formale autonomo supportato anche da dialoghi che mirano all’essenziale, spesso elementari, oppure di mera e semplice narrazione descrittiva.
Quello che conta di più è invece il rapporto soggettivo del personaggio con le cose (l’alternanza di mani, viso, oggetti): Vorrei fare a un tempo un film di oggetti e un film d’anima - e sono ancora parole del regista – Essere cioè capace di raggiungere la seconda attraverso i primi.
Di conseguenza, anche lo spazio ha una dimensione soggettiva così che – come ho già accennato sopra - nemmeno la cella, il lavatoio o il cortile (i luoghi cioè del vissuto giornaliero del prigioniero dentro alla struttura carceraria che lo imprigiona), si percepiscono interamente, come se anche per questi si agisse per sottrazione come avviene già nell'essenzialità del montaggio fatto spesso di campi e controcampi che giustamente si anima nel finale, nel suo ricorrere al montaggio alternato, necessario per creare una adeguata tensione adrenalinica.
Per tornare alla storia invece, dopo aver colto le reazioni iniziali di Fontaine che sottolineano la solitudine anche interiore del protagonista e il suo istintivo senso di autoconservazione e risentita difesa della propria dignità avvilita di fronte ai carcerieri, Bresson ne articola l’esperienza formativa in crescendo, modulando il ritmo dell’opera secondo tre momenti fondamentali e ricorrenti: la solitudine della prigione, i brevi dialoghi con il prigioniero della cella accanto(il vecchio Blancher) e le passeggiate mattutine nel cortile.
Nella cella, il rapporto di Fontaine è – come si è visto - con gli oggetti (gli strumenti che diventeranno il mezzo per la sua liberazione). Il materiale plastico utilizzato assume così un rilievo e una funzione essenziale: una spilla che serve ad aprire la serratura delle manette, un cucchiaio che diventa una specie di sega, i trucioli delle assi smosse, i ganci della rete metallica, la coperta sminuzzata in pezzi e strisce, una corda pazientemente intrecciata, la maniglia di uno sportello d’automobile, una porta di prigione smontata e tante altre cose comuni e insignificanti che si trasformano in armi liberatrici) che rappresenta appunto la rivincita dell’intelligenza, del paziente operare, dell’amore per la vita, contro gli ostacoli che imprigionano e uccidono.
Il ritmo lento e grave delle passeggiate mattutine, sottolinea invece l’avvilimento e l’alienazione di una condizione umana con i dialoghi dei prigionieri brevi ed allusivi, carichi di interne tensioni. Eppure questo intrecciarsi di monosillabi, di sguardi, di rapide intese, è proprio l’elemento fondante che crea un clima di comunanza, una sorta di fratellanza vera e propria, accennata con discrezione e pudore.
Si può dire poi che l’evasione di Fontaine matura senza ombra di dubbio fra gli ammonimenti sfiduciati di Blanchet con le sue prudenti esortazioni che nascondono spavento e tremore, e il generoso tentativo di Orsini (e questo è il terzo dei tre momenti).
Grazie a loro (contributi di parole e azioni) e all’aiuto di Jost, il sudicio ragazzo sbandato a cui non si possono che rivolgere frasi dure e impietose per la sua condizione non omologata, proprie di un momento che non consente infingimenti e dolcezze, Fontaine riuscirà alla fine ad evadere dal carcere, e saranno proprio quei passi rapidi e “liberati” che si allontanano nella notte, quel suo inerpicarsi sui tetti, a lasciare nello spettatore quello che il Jacobs chiamerebbe “un senso di profonda esultanza”.
Per la partecipazione commossa che suscita e per l’austero senso morale che lo sorregge, oltre che per tutti gli altri motivi accennati, questo Condannato a morte è fuggito è comunque molto di più di una pura e semplice anche se altissima esercitazione di stile, connotandosi come un’opera di apertura e di interno arricchimento, dove un fenomeno di vasto respiro storico come quello che è alla base del racconto, viene rivissuto nel modo più diretto ma al tempo stesso anche allusivo.
La vocazione all’analisi del regista indirizzata soprattutto verso i sentimenti, trova dunque qui una delle sue più compiute espressioni, proprio per quella capacità indotta di riuscire a comunicare emozioni utilizzando principalmente i frequenti primi piani delle mani e dei volti (avvicinare inabitualmente i corpi. Per catturare i movimenti più insensibili, più interiori) che però acquistano il loro pieno significato solo in rapporto a un montaggio sonoro a sua volta ricchissimo e complesso che ricostruisce la sensazione claustrofobica della prigione, con il rumore delle gavette, dei passi sulla ghiaia, delle chiavi, delle serrature, persino di un treno che passa, ecc, della sua quotidianità ossessiva, insomma. Su questo concreto “tappeto di suoni reali” di sottofondo, interviene spesso, facendo da contrappunto a una colonna sonora dissonante e violenta, la musica, con le straordinarie note della Messa in Do di Mozart, accompagnate per alcuni tratti, dalla voce un po’ amorfa di un narratore che espone verbalmente le evoluzioni del racconto, e riprecisa meglio persino gli effetti sonori già percepiti, indicando ad esempio, l’ora esatta che si è appena sentita suonare.
La presenza continua ed ossessiva dei rumori, il bianco e nero spoglio di Léonce-Henry Burel e la recitazione “non recitata” dei non attori (Bresson si serve di non professionisti, ma li dirige con lo stesso rigore con cui dirigerebbe dei veri attori, facendoli provare cento volte prima di poter cogliere un’espressione, un’intonazione, e di poter fissare gesti e movimenti precisi e stilizzati al tempo stesso) contribuiscono alla straordinaria riuscita di un progetto potente ed agghiacciante nel suo rigore francescano.
Lavorazione dunque lunga ed elaborata oltre che accurata, che si concentra sui dettagli ed evita inutili fronzoli ornamentali (la facoltà di servirmi bene dei miei mezzi diminuisce quando il loro numero aumenta, dirà al riguardo ancora Bresson, regista di assoluto rigore formale e morale, che non ha mai concesso nulla né alle esigenze del cinema spettacolare - Lancelot du Lac ne è la prova più eclatante - né allo spettatore). Questo modo di convogliare l’attenzione sugli aspetti contingenti della storia – l’esserci e l’agire, diventerà una specifica cifra stilistica della Nouvelle Vague, per la quale Bresson è stato insieme a Rossellini, il punto di riferimento più importante.
Di sequenze celebri da ricordare e mettere in evidenza, ce ne sono davvero tantissime. Mi limiterò a segnalare dunque quelle che più di altre hanno colpito la mia emotività : il fallito tentativo d’evasione iniziale mentre si attraversa Lione in automobile; il prigioniero che esce imbrattato di sangue dalle mani della Gestapo dopo l’interrogatorio; i rapporti con gli altri detenuti nelle docce “spiati” attraverso le finestre; i preparativi dell’evasione con l’utilizzo degli utensili (oggetti) improvvisati ai quali sia accennava sopra; l’arrivo improvviso nella cella di un altro prigioniero, vestito da soldato tedesco, e la diffidenza che viene esplicitata nei suoi confronti; e infine la straordinarie immagini dell’evasione attraverso i tetti della prigione. Tutti momenti "essenziali" e scarnificati nei quali Bresson, come si è visto, si concentra soprattutto sulle atmosfere: Ho evitato ogni effetto drammatico voluto – ha dichiarato al riguardo – nel senso della maggiore semplicità, affinché la commozione scaturisca dal movimento generale dell’azione, più che dai particolari, riuscendoci per altro magnificamente.
Per A. Bazin, un’opera insolita che non assomiglia a nessun’altra e per Truffaut, il film francese più decisivo degli anni ’50.
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