Regia di Ingmar Bergman vedi scheda film
Uno dei rari tratti d'unione fra due Maestri del cinema mondiale come Bergman e Fellini, così differenti eppure amici e profondi ammiratori l'uno dell'altro, è notoriamente il circo. Soltanto una manciata di mesi prima dell'uscita de La strada del regista riminese, ovvero il suo primo approccio alla realtà circense, ecco che il collega svedese propone questo Una vampata d'amore, lavoro che collega e annoda inscindibilmente fra loro il mondo dei clown, dei saltimbanchi, dei domatori e quello degli attori di teatro. Le atmosfere 'bergmanianamente' cupe e profonde sono rese magistralmente dalla livida e incantevole fotografia di Hilding Bladh (già col regista per Piove sul nostro amore, 1946) e di Sven Nykvist, con cui Bergman comincia qui un sodalizio fra i maggiormente importanti della sua intera carriera. Il film è una nemmeno troppo velata metafora dell'inconciliabilità fra l'amore (per le donne, per la vita, per lo spettacolo) come sentimento e la sua manifestazione concreta; il protagonista Albert è un uomo rozzo ed egoista, cioè incapace di sublimare tale sentimento in una qualsiasi manifestazione concreta. Bruto, poco intelligente e non particolarmente simpatico, entra però nel cuore del pubblico per un motivo decisamente atipico al cinema: fa pena. Fa pena quando tenta pateticamente di riapprocciarsi alla ex moglie, fa pena quando vediamo che neppure riconosce i suoi stessi figli, fa pena quando mente in maniera spudorata a un'amante molto più giovane e avvenente di lui (avendo quindi tutto da perdere), fa pena infine quando si ritrova a combattere contro un rivale che, senza fatica alcuna, letteralmente lo umilia in pubblico. In una scena, quest'ultima della lotta fra i due pretendenti, fra le più belle di tutto il cinema del regista (che pure, si ricordi, lavorava a ritmi impressionanti: in quello stesso anno aveva anche ultimato le riprese di Monica e il desiderio!). Messo alle strette dalla disperata situazione in cui versa, Albert ha solo il suo amore da offrire: ma è una vampata e nulla più, un gesto drastico e definitivo come lo è il suicidio. Che però non avviene, lasciando spazio a un finale quasi speranzoso, ma in realtà dolente di una severa presa di coscienza: l'appartenenza a una 'casta' inferiore, al nomade mondo degli artisti circensi, condannato a ritrovarsi una spanna al di sotto di quello dei 'colleghi' teatranti. Nel 1953 Harriet Andersson, anche protagonista di Monica e il desiderio, è - lo si può affermare con assoluta certezza - la donna più bella dell'universo; per fortuna di Bergman (con cui ebbe in quel periodo una relazione) è anche brava; ottimi anche gli altri interpreti, da Hasse Hekman (il clown), che aveva già preso parte a Sete e Prigione (entrambi usciti nel 1949) al protagonista Ake Gronberg, truccato alla maniera espressionista per meglio rendere i contorni brutali del personaggio. In una particina c'è anche Gunnar Bjornstrand, fra gli attori preferiti di sempre da Bergman. 7,5/10.
Il direttore di un circo in miseria vorrebbe lasciare tutto e tornare alla quieta e sedentaria vita con l'ex moglie e i figli. L'amante dell'uomo, la giovane cavallerizza dello stesso circo, si concede per ripicca a un attore e il direttore perde la testa. Lo scontro fisico fra i due pretendenti sarà quindi inevitabile.
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