Regia di Wong Kar-wai vedi scheda film
Un viaggio? Un racconto? Un delirio visionario? Probabilmente un itinerario di una mente eterna vagabonda in direzione dei propri ricordi perduti, alla ricerca di quel non luogo dove il mutabile si tramuta in immutabile, dove l’essenza del ricordo si rende corporea rivestendosi di pura materialità, senza più celarsi allo sguardo smarrito che vaga a ritroso nei meandri del tempo di memoria in memoria. Ma si tratta di destinazione reale o di divagazioni di più stretta pertinenza del regno dell’immaginario? Nessuno a questo punto può affermarlo con certezza perché da quel mitico 2046 non si è mai tornati.
Wong Kar-wai alterna echi di visionarietà simil-felliniana a momenti di decadentismo estetizzante non scevro da vaghe suggestioni viscontiane, non disdegnando neppure di passare per i paraggi di un Marienbad pur privo di decorazioni barocche ed astratti dedali labirintici (“Ma non ci conosciamo? Facevi la ballerina a Singapore e ti chiami Lulù” “Ma è davvero sicuro?” “Dicevi che somigliavi ai fidanzati che avevi perduto.” “Che altro dovrei ricordare?” “Andavamo insieme al casinò, perdevi molto, eri piena di debiti...”). I luoghi della mente vanno ad incontrarsi, sfiorarsi, incastrarsi tra loro e poi ritrarsi per indietreggiare e tornare al punto di partenza, muovendosi in spazi sempre più ristretti, contornati da rossastre tonalità diffuse che con il loro calore cromatico riaccendono per interposta persona il freddo estinto delle passioni, fino ad esplodere coercitivamente in un delirio visionario al tempo stesso corporeo ed extra-corporeo, tentativo di coniugare la fuga all’interno del proprio io arrembante con quella puramente concepita come un vero e proprio salto nell’ignoto, un ignoto dalle infinite dimensioni di una stanza dove la sfera del ricordo si espande a vista d’occhio fino a perdersi letteralmente in sé stessa.
L’astronave galleggia con lentezza in un oceano digitalizzato dove l’astrazione è ricondotta alla sua stringente primordialità di contenuto ma vana è la fuga nel regno di questo ipotetico futuro imbevuto di re(azioni) differite: la materialità corporea estranea alla forza dei sentimenti ed investita dal peso di emozioni inibite a menti androidi scarica all’interno di sé i propri meccanismi adrenalinici consegnandosi ad un eterno immobilismo che prelude ad una perenne reiterazione del ricordo, ovvero del viaggio.
Wong Kar-wai tira fuori il sostrato di malinconia dei suoi personaggi fino all’ultima goccia, soffermandosi su una presenza ricorrente che si rigenera di continuo con la misteriosità di fattezze smarrite nei meandri di sale da gioco smarrite in volute di fumo. Incontri volatili, sporadici, casuali nel sinuoso fruscio di abiti di seta che inguainano fascinose presenze colte a sfiorare la scena, attraversandola con la sinuosità sorniona di chi si rassegna con garbo e comprensione alla propria funzione svolta per interposta chimera. E caste dive affogate nelle luminescenti colorazioni del neon che generano un’atmosfera di decadente intimità nell’ambiente circostante, a dare forma ad una recerche visiva simil-proustiana elaborata in chiave di nostalgica “allucinarietà”, dove l’edonismo estetizzante dell’autore si concretizza con una specie di dannunzianesimo post litteram del suo alter ego vagante per le chiare selve della seduzione.
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