Regia di Jean-Luc Godard vedi scheda film
Il cinema di Godard negli anni 60 è stato uno dei più densi e rivoluzionari del mondo, con un apporto di sperimentazione e di innovazione audiovisiva che non può certamente essere ignorato, e che in termini estetici rimane fra i più rilevanti del secondo dopoguerra; tuttavia, non tutte le sue opere erano contraddistinte dallo stesso livello di impegno sia contenutistico che formale, tanto che il regista francese di solito alternava nello stesso anno un film di maggiore ambizione come "Il disprezzo" ad un altro in certo modo più grezzo e meno rifinito come questo "Les carabiniers", che in Italia si è visto pochissimo. Tratto da una pièce dello scrittore italiano trasferito a Parigi Beniamino Joppolo e basato su una sceneggiatura di Roberto Rossellini e Jean Gruault, il film è una sorta di apologo intellettuale sui pericoli insiti nel militarismo, calato in un'atmosfera e una vicenda senza tempo e senza precisa collocazione geografica, che vuole dimostrare l'abuso del potere sulle vite dei più deboli e la follia e l'insensatezza della Guerra con i suoi inutili massacri. I due protagonisti Ulysse e Michel-Ange saranno abbindolati da false promesse di gloria e facili conquiste da una lettera del Re in persona, ma verranno risucchiati in un vortice di violenza che non potrà non travolgere in primis anche loro stessi. Lo straniamento brechtiano, tipico delle opere di Godard di questo periodo, si alterna ad alcune felici intuizioni che danno nerbo ad alcune sequenze divenute giustamente famose tra i cinefili, in particolare quella dove Michel-Ange assiste al cinema ad alcuni cortometraggi che rifanno celebri opere del muto e ad un certo punto si appende letteralmente allo schermo, oppure quella in cui, insieme al suo amico, decanta alle loro donne le bellezze del mondo e la ricchezza di luoghi, animali e oggetti attraverso una lunghissima serie di fotografie. Insolita e perfino emozionante la scena in cui una donna, prima di essere fucilata, declama a voce alta versi di Majakovskij, ma ho l'impressione che questo breve film di 80 minuti sia più legato a questi singoli momenti che non ad una visione di insieme, che risulta più frammentaria, meno omogenea rispetto a quella che caratterizza i grandi capolavori come "Pierrot le fou" o "A bout de souffle" o "Vivre sa vie". Nel cast i due protagonisti sono Albert Juross e Marino Mase', che ritroveremo un paio di anni dopo in un ruolo importante de "I pugni in tasca" di Marco Bellocchio, mentre in un ruolo di contorno si ammira Geneviève Galea che è la madre di Emmanuelle Beart e qui le assomiglia tantissimo, ma nessuno di questi attori fornisce performance di forte spessore, perché il film si basa più sulle invenzioni registiche e l'urgenza perfino didascalica della sceneggiatura. Nel complesso un film misconosciuto, amaro e per certi versi in anticipo sui tempi, che in questi giorni è disponibile sul catalogo Netflix in versione originale con sottotitoli.
Voto 7/10
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