Regia di Kenji Mizoguchi vedi scheda film
Un ritratto della disperazione esplicitamente dichiarata, eppure dignitosamente coperta da un decoroso velo di pudore. Le geishe del quartiere edochiano di Yoshiwara amministrano la loro miseria con quel maturo compromesso tra determinazione e rassegnazione che è il realismo, e che le spinge ad adattarsi al dato di fatto, accettando saggiamente le umiliazioni, oppure scegliendo, scaltramente, la disonestà come unica via d’uscita. Questo film è il canto a più voci di una femminilità sofferta, che, però, non rinuncia al proprio ruolo di madre, moglie, o donna libera che sa il fatto suo. Cedere il proprio corpo in cambio di denaro è, per le protagoniste di questa storia, nient’altro che un’attività che assicura l’indispensabile per sopravvivere; mentre, per l’ambiente esterno, è una condizione degradante, in grado di contagiare, col marchio dell’infamia, tutti i consanguinei di chi ne è affetto. Come in Donne della notte o ne La signora di Musashino, Kenji Mizoguchi dimostra di amare appassionatamente i personaggi-limite, quelli collocati sulla soglia di una nuova era, di un cambiamento che è già in corso, o forse solo è paventato o auspicato. In questa storia, la linea di confine è quella tracciata da una possibile abolizione delle case da tè. La proposta di legge è in discussione tra i politici, mentre il mondo della prostituzione resiste a quella che è avvertita come un’agonia imminente, come l’ingiusto declino di un piccolo regno millenario che, dai margini della civiltà, rappresenta per molti il piacere proibito, per altri la facile ricchezza, e, per altri ancora, l’unica pensabile salvezza.
Le strade della vergogna raffigura, con una straordinaria varietà di caratteri e situazioni, il dramma di dover fare ciò che non si vorrebbe, e di apparire per ciò che non si è, per aderire a un ruolo che fa comodo a tanti, però è, ciò malgrado, universalmente disprezzato.
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