Regia di Kenji Mizoguchi vedi scheda film
Meglio recensire il suddetto film adesso, perchè se ci penso ancora il voto potrebbe sprofondare ancora più in basso ad un ulteriore terza visione, visto che la seconda non solo ha confermato tutte le perplessità precedenti, ma rimuginandoci sopra l'insoddisfazione verso l'Imperatrice Yang-Kwei-Fei di Kenji Mizoguchi (1955), con il passare del tempo potrebbe superare di gran lunga quella provata dai soldati e dal popolo sobillato dalle figure ostili alla donna, con conseguenze ancor più negative.
A metà degli anni 50' probabilmente Mizoguchi era il regista migliore del mondo con una miriade di capolavori assoluti della storia del cinema tutti di fila, senza contare gli altri fatti in precedenza, il che lo aveva già prima dei 60 anni proiettato nell'olimpo dei più grandi di sempre della settima arte, quindi cosa è andato storto? Data la vastità della sua filmografia delle pellicole minori è lecito aspettarsele ed il livello delle sue opere del decennio finale della sua carriera ovviamente era uno standard troppo elevato per chiunque, però dal passare dai capolavori assoluti della decade a tale pellicola, amareggia fortemente per l'assenza di un'equilibrata via di mezzo.
Yang-Kwei-Fei, prodotto tramite una casa cinematografica di Hong Kong, segna l'approdo da parte di Mizoguchi al colore; le pellicole giapponesi quando hanno adottato tale estetica hanno sempre prediletto un approccio fortemente anti-naturalista nel suo utilizzo, in un'accezione fortemente stilizata quasi certamente mutuata dalla forte influenza del teatro kabuki, però a tale complessità visiva dovrebbe corrispondere una sostanza che da ciò ne tragga giovamento, cosa che con la suddetta opera non avviene, poichè Mizoguchi ha un soggetto esile, quasi sullo stile di una favola (siamo innanzi ad una variazione della fiaba di Cenerentola), con protagonista la giovane Kwei-Fei (Michiko Kyo), una giovane sguattera con legami familiari importanti, viene scelta dal cugino e dall'ambizioso generale An Lushan, come possibile nuova moglie per l'imperatore Xuan Zong (Masayuki Mori), data l'estrema somiglianza con la defunta moglie di quest'ultima della quale l'uomo non se ne capacita della scomparsa, vivendo in modo apatico e respingendo con estremo fastidio gli inviti dei suoi funzionari di corte a risposarsi. L'imperatore viene colpito dal nobile animo della giovane e la invita a restare nella sua cerchia, ricompensando i membri della famiglia della donna con titoli nobiliari e cariche politiche, suscitando però il rancore del generale An vistosi escluso dalla cerchia dei ministri, seppur nominato governatore di tre provincie importanti, meditando vendetta arrivando a sobillare il popolo contro la donna e la sua famiglia.
Celebrato per la ricca fotografia di Sugiyama, in effetti risulta impossibile non riconocerne il valore estetico in quelle composizioni di giallo ocra che risplendono in tutta la loro pastosità nelle scene in esterna nel giardino in fiore del palazzo, così come quei rossi saturi delle stanze della residenza imperiale, creando composizioni visive strabilianti e di un'atmosfera baroccheggiante, che a lungo andare comporta un'eccessiva pesantezza per l'occhio umano data la monotonia estetica senza alcuna variazione, la quale sembra dividere il mondo in una netta dicotomia, che si riflette anche nella psicologia poco più che abbozzata dei personaggi.
Lo scandaglio umano è stato da sempre la cifra caratteristica del cinema di Mizoguchi, i suoi long-take infiniti non hanno mai reso i suoi capolavori statici o comunque eccessivamente teatrali, poichè l'elemento dinamico era dato nell'inquadratura dal minuzioso e multiforme ritratto psicologico delle figure messe in scena che raggiungeva livelli di accuratezza estremi, ponendo attenzione ad ogni elemento narrato, dove anche la singola parola aveva un peso specifico molto profondo, tutto questo viene purtroppo meno in tale pellicola, se il ritratto saggio quanto bonario dell'imperatore trova giustificazione nel tono favolistico della storia e la raffigurazione stoica di Kwei-Fei riprende altre eroine tipiche del cinema del regista, anche se non raggiunge mai tali vette per via di una sensazione di una certa ripetizione, il ritratto della corte che gravita intorno a tale duopolio risulta manicheo e banale, facendo perdere forza al ritratto di una società basata esclusivamente sui rapporti di forza, la cattiveria ed il maschilismo, che rende vittima la figura femminile vittima di tali soprusi; in pratica la pellicola soffre tanto perchè evanescente risulta lo scandaglio psicologico dell'umanità in cui sempre era stato abile il regista. L'Imperatrice Yang-Kwei-Fei è un'opera manierista, che sembra uscita da un regista che ha imitato pedissequamente lo stile del cineasta nipponico senza afferrarne l'essenza, anche se ovviamente acquista un pochino di valore in base al fatto che è un film dello steso Mizoguchi e quindi in parte scusabile se rifà sè stesso. Tale squilibrio probabilmente origina da una sceneggiatura scritta da ben 4 mani, con interventi non accreditati da parte dello stesso Mizoguchi, trovando qua e là talvolta la propria anima per quei 2-3 colpi di genio, come il pre-finale riguardante l'amaro destino di Kwei-Fei, con un lucido quanto impietoso ritratto stoico di una donna che accetta la propria sorte, grazie ad uno sguardo del regista sempre pessimista in materia, dove però al contempo mostra delle cadute di tono notevoli, come nel finale con quella voce eterea, che vorrebbe tanto ricordare la poesia di un legame che perduto nel tempo sulla falsariga dell'Intendente Sansho (1954), quando in realtà la melassa indigesta straborda da ogni parte del supporto video.
La critica giustamente ha mostrato molte riserve nei confronti dell'opera, indubbiamente Mizoguchi si trovava meglio nell'uso del bianco e nero, il cui grigi perfetti ne valorizzavano le psicologie e la profondità di campo, quindi si consiglia prima di recuperare i capolavori del regista e solo dopo in un secondo momento recuperare la suddetta opera.
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