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L'intendente Sanshô

Regia di Kenji Mizoguchi vedi scheda film

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Questo testo contiene anticipazioni sulla trama.

La recensione su L'intendente Sanshô

di vermeverde
10 stelle

Uno dei grandi capolavori girati negli anni Cinquanta in cui risalta la maestria tecnica e artistica del grande regista sempre attento a mostrare le vessazioni degli umili e delle donne in particolare, sottomessi al tradizionale potere maschilista e autoritario.

La trama del film è tratta da un’antica leggenda medievale, risalente al tardo periodo Heian (XI secolo), e si presenta come un dramma il cui tema fondamentale è nell’insegnamento del padre al figlio Zushiô: «Senza la pietà un uomo non è un essere umano. Sii duro con te stesso, sii compassionevole con gli altri. Gli uomini sono stati creati uguali. Tutti hanno diritto alla propria felicità.»

Nel film è costante la rappresentazione del contrasto fra chi è sensibile e partecipe delle difficoltà altrui e cerca di porvi rimedio e chi, invece, subordina tutto all’interesse economico e al potere politico/militare rigidamente imperniato su una tradizione oppressiva. La mancanza di pietà e, quindi, di umanità appare funzionale all’equilibrio della società e, pertanto, Mizoguchi esprime una velata critica politica ai sistemi di potere basati sull’oppressione e lo sfruttamento dei più deboli e sul predominio dell’interesse economico. Nel film, la situazione di equilibrio preesistente (unione della famiglia) è rotta dall’esilio del padre, difensore della necessità dei contadini di coltivare le terre, da cui deriva l’allontanamento della famiglia e, a causa de raggiro della falsa monaca, la riduzione in schiavitù sia dei figli Zushiô e Anju, forzati a lavorare nel feudo governato dall’intendente Shans?, che della madre, venduta a un bordello e allontanata irrimediabilmente dei figli. 

Non a caso tutte le malvagità compiute dai vari personaggi hanno come fine il denaro: così, ad esempio, quando qualcuno perché vecchio o malato non è più utile alla produzione è abbandonato a morire sulla montagna, così come oggi un oggetto inutile è buttato in discarica. Le nefandezze di Shanso sono addirittura elogiate da esponenti governativi perché permettono di conseguire quei vantaggi economici sui quali si fonda l’autoritario sistema di potere precapitalista. La schiavitù, inoltre, induce al degrado morale, infatti Zushiô si adegua al clima oppressivo giungendo anche a marchiare a fuoco, come fosse un capo di bestiame, un anziano che tentava di fuggire; la sorella Anju, invece, pur con la sua dolcezza, si dimostra più forte rimanendo fedele ai dettami morali insegnati dal padre. 

È stato osservato che Mizoguchi, nella sua ferma critica si sistemi autoritari e oppressivi, pare che abbia raffigurato il feudo governato dall’inflessibile e crudele intendente Shanso come metafora dei campi di concentramento giapponesi della II guerra mondiale in cui i prigionieri erano sottoposti a durissimi lavori forzati (v. “Il ponte sul fiume Kwai”).

Confrontando la situazione iniziale con quella finale, si ha la precisa percezione del forte pessimismo che pervade la storia: dopo lunghe lotte e sofferenze per ristabilire un minimo di giustizia, la famiglia si ricompone miseramente soltanto per metà e i superstiti sono irrimediabilmente segnati nel fisico e nel morale, i contadini che hanno ottenuto la libertà non ne approfittano per migliorare la loro posizione ma si abbandonano alla vendetta sterile devastando e incendiando il palazzo di Shanso: il male perpetrato ha scavato un solco che non può essere colmato.

Oltre ai profondi e sentiti contenuti morali il film è memorabile per la consueta maestria registica dell’autore: Le inquadrature sono composte con grande accuratezza e con il raffinato gusto pittorico giapponese (Mizoguchi aveva studiato arte e lavorato come disegnatore), ben assecondato dal grande direttore della fotografia Kazuo Miyagawa nel rendere tutte le sfumature e le tonalità del bianconero. Un cenno particolare va ai fluidi movimenti di macchina che con le predilette inquadrature dall’alto assecondano l’espressività della scena: ne sono esempi il senso panico della natura che sovrasta e circonda Tanaki e i figli durante il viaggio, la scena in cui Taro, il figlio di Shanso, abbandona la casa paterna in cui il piano sequenza ne rende stupendamente l’allontanamento non solo fisico, la celebre bellissima sequenza del sacrificio di Anju di toccante e pudica semplicità nel suo squisito gusto pittorico e il commovente finale che chiude il film con una panoramica in campo lungo di desolata semplicità (analoga in questo al finale di “I racconti della luna pallida d’agosto”).

In conclusione, ritengo questo film un capolavoro assoluto di uno dei più grandi registi della storia del cinema.

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