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L'intendente Sanshô

Regia di Kenji Mizoguchi vedi scheda film

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La recensione su L'intendente Sanshô

di Peppe Comune
10 stelle

Il governatore della provincia di Mutsu, Masauji Taira (Masao Shimizu), viene esiliato nella lontana provincia di Tsukushi perchè i suoi metodi troppo umani di gestire i feudi posti sotto la sua amministrazione e la fraterna complicità instaurata con i contadini che lavorano per lui, mal si sposano con gli interessi di casta e la struttura rigidamente piramidale del potere imperiale. L’esilio comporta anche l’allontanamento dalla famiglia e così la moglie (Kinuyo Tanaka) e i figli Zushio (prima Masahiko Kato poi Yoshiaki Hanayagi) e Anju (prima Keiko Enami poi Kioko Kagawa) rimangono da soli in un mondo pieno di insidie. Infatti, non passa molto tempo che madre e figli vengono rapiti dai briganti e venduti separatamente al mercato libero degli schiavi. La madre viene venduta sull’isola di Sado, Zushio e Anju capitano nelle terre gestite dall’Intendente Sansho (Eitaro Shindo). Qui conoscono il figlio dell’Intendente, Taro (Akitake Kono), un ragazzo dall’animo non del tutto compromesso che proprio grazie alla triste storia dei due ragazzi acquista la forza di abbandonare il padre per intraprendere la via monastica.

“L’intendente Sansho” (liberamente ispirato a un racconto di Mori Ogai) di Kenji Mizoguchi è un capolavoro di struggente chiarezza espositiva, con tutti gli ingredienti del dramma a sfondo sentimentale e con tutti i requisiti appropriati per renderlo un magnifico affresco del Giappone che fu. “Le origini della leggenda di Sansho Dayu risalgono al medioevo, quando il Giappone non era ancora uscito dall’oscurità. Per secoli è stata tramandata dalla gente ed è ricordata oggi come una delle leggende tradizionali della nostra storia”. Questo recita la didascalia che precede l’inizio del film, a conferma del valore emblematico delle vicende rappresentate e la portata testamentaria dei suoi sviluppi possibili. L’Intendente Sansho che da il titolo al film è in realtà un personaggio secondario nell’economia descrittiva dell’intera storia, così come lo è il padre, che si vede solo all’inizio. Sono figure marginali solo da un punto di vista della presenza scenica però, perché in realtà rappresentano il vero motore della storia, e non tanto perché gli effetti prodotti dai ruoli sociali che ricoprono si ripercuotono inevitabilmente, nel bene e nel male, sulle persone che gli ruotono intorno, ma soprattutto perchè le rispettive personalità fungono da centro gravitazionale di tutti gli accadimenti che si susseguono. La loro assoluta centralità deriva dal fatto che Mizoguchi li ha resi i poli fondamentali di quella perenne lotta tra il bene e il male, che, tradotto secondo l’evidente intenzione dell’autore giapponese di dare (come capita molto spesso col suo cinema) una connotazione socio politica all’intera stuttura del film, significa contrapporre l’interessata conservazione di posizioni di comando attraverso la terroristica pratica della schiavitù, con la ricerca fattiva di forme più egualitarie di gestione delle terre per mezzo di un rinnovato umanesimo. Una lotta tutta appannaggio delle forze del male, con un ordine delle cose che rende vano ogni sforzo progressivo di porre fine alla sopraffazione dell’uomo contro un suo simile. Eppure i buoni esistono e resistono, indirizzati nel loro impervio cammino dalle parole che Masauji Taira consegna al cuore del piccolo figlio prima di essere allontanato dai suoi affetti. “Senza pietà un uomo non è un essere umano. Sii duro con te stesso ma compassionevole con gli altri. Gli uomini sono stati creati uguali. Tutti hanno diritto alla felicità”. Parole semplici e incisive dettate al figlio come  per esortare tutti a non disperdere mai quanto c’è di veramente buono in fondo al cuore, a resistere sempre, contro tutto e tutti. Parole che risuonano ossessive come un monito solenne da cui non si può sfuggire, che fanno rinsavire Zushio (conosciuto come Mutsu nel feudo dell’Intendente) dopo che si era adeguato alle selvagge regole dei suoi padroni, che spingono Taro a vergognarsi del padre e fuggire lontano per dedicarsi all’ascesi monastica e che consegnano ai contadini che hanno lavorato per il governatore Masauji Taira il ricordo di un uomo buono e giusto. Buone e resistenti sono soprattutto le donne (come spesso accade con Kenji Mizoguchi), sagge eroine in un mondo disumanizzato dalla protervia maschile, con in dote un incalcolabile spirito di sopportazione e una naturale inclinazione al sacrificio. Difficile da dimenticare quello compiuto da Anju (emblematicamente conosciuta col nome di Shinobu, che significa "sofferenza", come quella  che ha dovuto patire) per consentire al fratello di fuggire dalla “prigione” dell’Intendente e mettersi alla ricerca dei genitori. Impossibile non commuoversi di fronte all’icontro tra madre e figlio davanti a un mare silente che fa da cornice discreta all’elegiaca santificazione dell’amore filiale. Ecco, nella stupenda sequenza finale c’è quanto basta per poter parlare di grande lezione di cinema : ci sono la struggente esposizione dei sentimenti più puri a chiudere una storia melodrammatica e un architettura d’insieme che ne esclude ogni tendenziosità ricattatoria o eccesso gratuito di retorica. Lo sguardo dell'autore non lacera mai la sottile patina delle emozioni per veicolarne l'esito secondo criteri ampiamente convenzionali, ma si mantiene a una saggia distanza per conservare del doloroso finale di questa triste storia una prospettiva molto più estesa. Il lirismo delle immagini e il rigore stilistico si equilibrano perfettamente in un cinema che non ha tempo.

 

scena

L'intendente Sanshô (1954): scena

 

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