Regia di Kenji Mizoguchi vedi scheda film
Questa storia di esilio, rapimento e prigionia è una delicata favola sul perdersi e ritrovarsi, sulla schiavitù che induce la corruzione e la lontananza che induce l’oblio, fino a che una misteriosa forza emergente dall’anima riesce, improvvisamente, a far rivivere il passato. Questa fiaba ha il respiro narrativo di un romanzo di formazione, e lo spessore emotivo di un dramma, e non fa scaturire il lieto fine magicamente dal nulla, bensì lo costruisce pazientemente attraverso l’estenuante percorso della sofferenza. Lo spirito democratico e antifeudale che pervade l’opera si coniuga al valore religioso della giustizia post mortem: la rettitudine va coltivata per tutta la vita, e la speranza mai abbandonata, perché il premio giunge sempre tardivo. In questo ottimismo trascendente si inquadra anche il fatto che, una volta tanto, siano i meriti dei padri a ricadere sui figli. Il bene vince, e in maniera duratura, perché sa attendere e perseverare: ogni rinuncia o cedimento è un errore imperdonabile. La vita, in questo senso, è studio: è ricerca della verità attraverso l’esperienza e la riflessione, ed è l’impegno a perfezionarsi lavorando sui propri limiti, ed approfondendo la conoscenza delle cose. A questo itinerario verso la sapienza fa da sfondo, secondo la filosofia confuciana, il patrimonio di saggezza proveniente dalla tradizione: lo sforzo di essere giusti passa anche attraverso la messa in pratica degli insegnamenti che ci sono stati tramandati. Nessun uomo è un essere umano, se non ha compassione. Per quanto tu sia duro con te stesso, sii sempre compassionevole con gli altri: questo principio è il viatico paterno che accompagna il giovane protagonista Zushio nel suo travagliato cammino, e che lo farà tornare, dopo aver conosciuto la disgrazia e la gloria, alla modesta esistenza del viandante, l’unica che gli conceda la libertà di essere se stesso e di scegliere, di volta in volta, le direzioni ed i traguardi in cui ardentemente crede.
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