Regia di Akira Kurosawa vedi scheda film
Del testo letterario Kurosawa coglie la carica umana più che il versante sociale, amplificato da Renoir nel ’36 (Les bas-fonds), spostando a Edo (Tokyo), verso la fine dell'era Tokugawa (inizi dell'Ottocento), una galleria di ritratti da commedia “nera”
Dal dramma Na dne (Nel fondo del 1902, noto anche come L'albergo dei poveri) capolavoro teatrale di Maxim Gorkij, nasce questo affresco cupo di miseria, derelitti e falliti chiusi in un ospizio per poveri nei bassifondi della vita da dove non ci si rialza più.
Una panoramica circolare dal basso, in apertura, riprende l’orlo di questo girone d’inferno nell’attimo in cui due uomini rovesciano rifiuti, dunque il luogo è una discarica e i rifiuti sono esseri umani.
La scenografia è teatrale, la camera fissa al centro del dormitorio inquadra angoli bui da cui affiorano, a tratti, dannati della terra, uniti in varia e incoerente compagnia, vagabondi giunti al termine estremo della desolazione. Pochi passaggi nel cortiletto esterno, brevi fuori registro per poi tornare nello spazio interno, claustrofobico, a mettere in scena una scrittura circolare e iterativa, un copione senza intreccio per vite al capolinea, i fili della trama dissolti per sempre.
Del testo letterario Kurosawa coglie la carica umana più che il versante sociale, amplificato da Renoir nel ’36 (Les bas-fonds), spostando a Edo (Tokyo), verso la fine dell'era Tokugawa (inizi dell'Ottocento), una galleria di ritratti da commedia “nera”, con un ex attore alcolizzato senza più memoria, un samurai spiantato (neanche più un ronin, il niente assoluto), un ladro, Sutekichi, che vuol rifarsi una vita con Okayo,la donna che non riuscirà a capirlo, schiava anche lei di una condizione sub-umana, la prostituta Osen che sogna l’amore, e ancora altri pezzi di esistenze underground, che torneranno ad affacciarsi, col loro puzzo di zolfo, nel Dodés-ka-dén del ’70, in particolare nella figura dell’homeless, squinternato sognatore che dorme nella carcassa di una macchina col bambino che morirà.
Il tempo qui scorre nell’attesa del nulla, ma succede di tutto: giocano a carte e litigano per futili motivi, cantano, barcollano ubriachi di saké, la tosse di Asa,la donna morente, costringe tutti per pochi secondi al silenzio (si sente arrivare la morte), la padrona del tugurio, Osugi, spasima di gelosia per il ladro che ama sua sorella, il marito usuraio viene ucciso in una rissa.
Alla fine del primo atto sembra però arrivare il tanto atteso Godot, è Kahei (Luka, in Gorkij),un vecchio pellegrino che spiazza di continuo tutti con le sue risposte, un po’ saggio e un po’ pazzo, quello che in Na dne, al barone che gli chiede “Sei forse un pellegrino?”, risponde: “Tutti siamo pellegrini, in questo mondo. Ho inteso dire che anche il nostro mondo non è che un pellegrino negli spazi del cielo.”
C’è poco da illudersi, però, Kahei porta quel tanto di luce che basta a vedere lo spessore del buio, sparisce come è venuto dopo la rissa collettiva e il vuoto catatonico di quelle vite riprenderà il suo corso, con discorsi insensati e stralunati balletti che ricordano il corteo di maschere guidate dalla fortuna del sulfureo Luciano di Samosata.
Si è oltre la tragedia in questi bassifondi .
La morte dell’attore che s’impicca ottiene l’ultima battuta da uno della compagnia “Doveva anche guastarci la canzone!... quel pazzo!... (Gorkij)
Come osserva Karl Marx "la storia è radicale e attraversa parecchie fasi quando vuole seppellire una vecchia forma sociale. L’ultima fase di una forma storica è la commedia. Gli dei della Grecia, tragicamente feriti a morte nel ‘Prometeo incatenato’ di Eschilo, dovettero subire una seconda morte, la morte comica nei ‘Dialoghi’ di Luciano... perché l’umanità si separi serenamente dal suo passato" (daPer la critica della filosofia del diritto di Hegel)
www.paoladigiuseppe.it
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