Regia di Roberto Rossellini vedi scheda film
Considerato una postilla alla trilogia esistenzialista ("Stromboli" - "Europa 51" - "Viaggio in Italia"), con cui l'immenso Rossellini reinventò per la seconda volta il suo cinema (indicando la strada a tanti altri che lo seguirono a scoppio ritardato, talvolta fraintendendo il suo messaggio morale) dopo i fasti neorealisti, "La strada" è un piccolo grande film che suggella l'intesa artistica (visto che quella sentimentale stava andando in crisi) fra il regista e la sua musa Ingrid Bergman, attrice straordinaria come nessun'altra nel rappresentare un preciso sentimento/concetto: quello dell'ansia. Per tutto il film, la donna non fa che struggersi ed affaticarsi per nascondere al marito il suo adulterio: la vediamo quasi sempre muoversi, spostarsi, guardare oltre l'inquadratura per stanare le insidie di una vita divenuta un incubo, un peso insostenibile per la coscienza. Irene fugge in continuazione, tallonata senza pietà, braccata da una donna ricattatrice e da un marito sospettoso. E la mdp di Rosselini registra i suoi spostamenti, accompagnandone gli sbalzi emotivi con l'occhio misericordioso ma al contempo intransigente del confessore. Rispetto ad altri film del regista, è più contaminato con altre poetiche, sia pur tutte estremamente moderne. Da Hitchcock (la struttura compatta da "thriller dell'anima", con tanto di clamoroso colpo di scena, gestito con intelligenza sopraffina e tempi perfetti) a Bergman (la parentesi bucolica-nostalgica, le brevi gioie del ricordo e dell'infanzia, la vergogna e l'istinto suicida), fino a Bresson (la giustapposizione ellittica di una voce off intimistica con immagini spoglie), Rossellini pare voler dialogare con le istanze più problematiche del cinema d'autore suo contemporaneo. Quando poi si scopre cosa c'è dietro ai ricatti della donna, il film si apre a riflessioni e sottotesti fra i più complessi: l'esistenza come un'amara messinscena, i volti come maschere, la realtà come illusione. Altrove però Rossellini conferma le sue peculiarità: la sequenza della figlioletta sgridata per non aver detto la verità e quella in cui si illustrano le caratteristiche del veleno per topi sono trasparenti e "didattiche" metafore della situazione mentale di Irene, della sua vita inquieta e "avvelenata". E poi il finale disperato, con la Bergman a reggere la scena da sola, nel triste ed insolito scenario di un laboratorio chimico, è un momento di asciutto strazio come solo Rossellini sapeva rendere. "La paura" non è un film indispensabile come altri 4 o 5 di questo regista, ma è una di quelle opere "minori" che ribadisce una statura autoriale fuori dal comune.
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