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Dodes'ka-den

Regia di Akira Kurosawa vedi scheda film

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Marcello del Campo

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La recensione su Dodes'ka-den

di Marcello del Campo
8 stelle

 

Bisogna cambiare la mentalità dei produttori, far piazza pulita dei funzionari che si sostituiscono agli autori (Akira Kurosawa).

 

La crisi depressiva che portò il regista nel 1971 a un tentativo di suicidio è in parte dovuta all’incomprensione e all’isolamento in cui i produttori avevano gettato Kurosawa dopo il fallimento di Dodes’ka-den.

I1 film nasce come il primo e unico tentativo di un gruppo di registi di fondare una casa di produzione indipendente (“I quattro cavalieri”) composta da Kurosawa, Ichikawa, Kobayashi e Kinoshita.

Dodes’ka-den è il film di una crisi personale oggettivata nella rappresentazione cupa e pessimistica di una bidonville situata in un quartiere malfamato di Tokyo.

Tratto da un libro di racconti di Shugoro Yamamoto (Il quartiere senza sole), il film si articola in otto episodi desolanti, strutturati a incastro. Ogni episodio ha il suo centro in un personaggio che il regista descrive senza alcuna partecipazione: un approccio veristico che rimanda a una poetica estranea all’autore, amante di Dostoevskij, Pirandello, mai Zola. Eppure viene fatto di pensare a un realismo ottocentesco, al Dostoevskij semmai di Umiliati e offesi piuttosto che alla critica della società industriale in termini più moderni.

 Vediamo alcune scene, i topoi del naturalismo ci sono tutti: un barbone vive in una carcassa di automobile sognando una grande casa ricca di comodità e lascia morire il figlio di indigestione da cibo avariato; il signor Hei, uomo rispettabile, tradito dalla moglie e intento maniacalmente a tagliuzzare pezzi di stoffa facendone stracci multicolori; la quindicenne Katsuko mantiene grazie al suo lavoro lo zio ubriacone che peraltro la violenta e la costringe all’aborto.

Tra pazzi, alcolizzati, borgatari malmessi non mancano le figure ‘positive’: l’impiegato Shima, un ometto allegro devastato da tremendi tic nervosi che scuotono il suo corpo come un burattino; l’artigiano Tamba, l’uomo dei proverbi e dei saggi consigli. Domina su tutti Rokuchan, il ragazzo-treno che cammina ritmando l’onomatopea ferroviaria dodes’ka-den, lo sferragliare del treno. In Rokuchan il visionario, Kurosawa adombra forse il mito dell’artista creatore in un mondo senza creature. I1 colore, usato per la prima volta dal regista, asseconda stati d’animo e situazioni con analogie elementari di bella efficacia: lo stato di ebbrezza con contrastanti rossi, gialli, neri; l’agonia del ragazzo avvelenato dal cibo con impasti di verde e bruni slavati. Come Antonioni in Deserto rosso, Kurosawa dipinge a mano tutti gli elementi della ripresa: abiti, catapecchie, rifiuti.

Dopo questa esperienza da ‘sottosuolo’, Akira Kurosawa - durante un viaggio a Tokyo di Sergej Gherasimov - accetta di fare un film su un eroe positivo, Dersu Uzala, il cacciatore mongolo del libro di Arseniev l’esploratore.

Un capolavoro: dai tuguri di Dodes’ka-den (spazio chiuso) alla rigenerazione del profondo Ussuri (spazio aperto).

Dalla malattia Kurosawa torna alla salute.

Poi. nel 1980, Kagemusha: la perfezione. 

 

 

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