Regia di Akira Kurosawa vedi scheda film
E pensare che questo fu il film a causa del quale (o comunque dopo il quale) Kurosawa tentò il suicidio...
Qui si può citare subito qualche titolo che, per temi e struttura narrativa, sono accostabili a questo film dell'Imperatore: sul primo piano, anche perché vicini a noi, non si può non pensare a "Miracolo a Milano" (1951), ad "Accattone" (1961) e a "Brutti, sporchi e cattivi" (1976), entrambi ambientati in un'infernale baraccopoli come quella di "Dodès'ka-den"; dal secondo punto di vista si può pensare a "Intolerance" (1916) e perfino a "Pulp Fiction" (1994). Kurosawa riesce, con questo film sfortunato e martoriato dai tagli dei distributori, ad orchestrare un racconto al tempo stesso corale e rapsodico (e dato che siamo a citare termini musicali, va anche fatta una lode alla bella partitura di Toru Takemitsu), fatto di tanti frammenti che si intarsiano quasi alla perfezione, e che trova nei colori delle scenografie, usati in funzione pittorica, un elemento di sostegno dell'intera narrazione. E non ci si dimentichi che questo ful il primo film a colori di Kurosawa, che in precedenza si era sempre rifutato di girare se non con il suo amato bianco e nero.
Come è forse ovvio, - e come sottolinea anche Aldo Tassone nell'ormai consumatissimo Castoro su Kurosawa - non tutti i ritratti sono riusciti alla stessa maniera. Ve ne sono, però, alcuni vividissimi e che restano impressi nella memoria, primo tra tutti quel Rokuchan (interpretato da Yoshitaka Zushi, che già avevamo visto nella parte del Topino in "Barbarossa"), convinto di essere (il conducente di) un tram, che apre e chiude la vicenda del film. Ma anche l'impiegato Shima, affetto da una serie impressionante di tic ed oberato dalla moglie maleducata e autoritaria; il signor Ryo, che si rifiuta di parlare alla moglie tornata a casa pentita dopo averlo lasciato per un altro uomo; il barbone idiota che lascia morire di stenti il figlioletto che gli procacciava il cibo; l'anziano Tamba, che vive tranquillamente i suoi ultimi anni grazie all'arma pacifica dell'ironia; la giovane Katsuko, violentata dal laido zio, che sfoga la sua rabbia con un gesto aggressivo nei confronti dell'unica persona che le aveva manifestato affetto.
A chi rimanesse sorpreso di questo film, bisognerebbe ricordare le precedenti esperienze in cui Kurosawa aveva già mostrato la sua attenzione per gli ambienti degradati e per le persone che, nonostante le enormi difficoltà, vi conducevano una vita cui cercavano di attribuire il carattere della dignità. E, in questo senso, si pensa a "L'angelo ubriaco" (1948), "Cane randagio" (1949), "I bassifondi" (1957), "Anatomia di un rapimento" (1963). Anche "Dodès'ka-den" è un esempio del cinema umanitario, intendendo per tale la rappresentazione di quel minimo comun denominatore che rende tutti gli uomini partecipi della medesima essenza, del grande regista giapponese.
Nonostante che ormai il nome di Kurosawa fosse uno dei più alti nel firmamento cinematografico, "Dodès'ka-den" arrivò in Italia soltanto nel 1978 e fu accolto dalla critica abbastanza freddamente; fu inserito tra le opere minori del regista, ma, nonostante ciò, nessuno riuscì a parlarne male (Giovanni Grazzini scrisse che «anche quando l'ispirazione ideologica è fragile, la mano del Kurosawa pittore d'umanità serba sempre il segno di uno stile»), e credo che oggi meriterebbe un'ampia rivalutazione.
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