Regia di Akira Kurosawa vedi scheda film
Nora inu / Cane randagio è stato girato da Kurosawa nel 1949 e presenta forti analogie con il coevo “Ladri di biciclette” di De Sica: se sia o no una fortuita convergenza è una domanda che non ha una risposta univoca, tuttavia personalmente penso non sia così involontaria.
La trama descrive le indagini di un poliziotto appena entrato in servizio, Murakami (interpretato da Toshiro Mifune), coadiuvato dall’esperto Sato (Takashi Shimura), al quale è stata borseggiata la pistola poi finita in mano ad un delinquente. Il film è articolato su più piani narrativi: il principale è quello relativo alle indagini conseguenti alle indagini per il ritrovamento dell’arma, usata da uno sbandato, il “cane randagio” del titolo, che lo caratterizza come un noir; il pedinamento della borseggiatrice, e il vagare nei bassifondi, inoltre, permette a Kurosawa si documentare il degrado di Tokyo, appena uscita dal devastante conflitto, dove la necessità di sopravvivere prevale sulla morale e l’influenza americana spinge verso l’adozione di costumi più moderni e più volgari; infine, vi è il percorso di crescita di Murakami, guidato ed istruito dal disincantato e avveduto Sato, che passa dalla improvvida insipienza iniziale alla matura consapevolezza finale.
Nel film, che comunque non ha momenti deboli o di stasi, ho trovato degne di particolare menzione alcune sequenze fra le tante notevoli: il pedinamento della borseggiatrice e il celebre vagare nei bassifondi alla ricerca del ricettatore, la scena dietro le quinte del music hall con le ballerine stremate, il drammatico interrogatorio della ballerina Keiko, lo scontro finale con la musica diegetica del pianoforte prime e della canzoncina dopo in totale e surreale contrasto con la scena.
Fra il giovane Murakami e l’anziano Sato è evidente la contrapposizione, situazione spesso ricorrente nei film polizieschi mentre fra il poliziotto e il “cane randagio” Yusa c’è un più coperto rapporto di duplicità: Murakami, infatti, avendo perso la propria arma, lo strumento di lavoro, si sente menomato della sua individualità, del suo essere, è come un uomo a metà che cerca disperatamente di ricomporsi e inorridisce al pensiero che la “sua” arma stia compiendo dei delitti, Yusa, invece, con lo stesso oggetto crede di poter riempire il vuoto della propria esistenza acquisendo un posto nel mondo da cui si sente respinto ai margini e di farsi accettare da Harumi, la ragazza di cui è innamorato. Entrambi hanno avuto la stessa disavventura iniziale, il furto dello zaino, a cui hanno reagito in modo diverso: in fondo Yusa è la copia in negativo di Murakami.
Dal punto di vista formale qui Kurosawa si distingue nettamente dai grandi registi giapponesi suoi contemporanei (Ozu, Naruse, Mizoguchi, …) sia per la forte critica sociale, resa evidente dalla insistenza sulla sgradevolezza e immoralità dei bassifondi, e per lo stile molto moderno ed avanzato per l’epoca (è una constatazione non un giudizio di merito): mobilità di macchina, inquadrature insolite, attenzione a particolari anche insignificanti, uso della profondità di campo e di dissolvenze/sovraimpressioni, montaggio serrato alternato a momenti più distesi.
Anche la recitazione, rispetto agli standard contemporanei, è meno trattenuta e più intensa, in particolare quella di Toshiro Mifune è concitata e ricca di scatti nervosi, forse a volte troppo melodrammatica mentre quella di Takashi Shimura (altro attore prediletto dal regista) è molto più sobria; efficaci le prove di Keiko Awaji (Harumi), Eiko Miyoshi (la madre di Harumi) e di Noriko Sengoku (la borseggiatrice).
In conclusione, Cane randagio è senz’altro da annoverare fra i capolavori di Akira Kurosawa.
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