Regia di Shohei Imamura vedi scheda film
Grande Imamura, che film! Grazie al ritratto di questo truffatore che si trasforma in un grande serial killer, il regista giapponese dà una lettura spietata della società del suo paese, ma anche delle miserie umane in generale. Non si salva niente e nessuno: né l'amore fisico, né l'istituto della famiglia, né la religione (non il buddismo e nemmeno il cattolicesimo, di cui è seguace il protagonista), né la legge, che mette a morte l'assassino esattamente come faceva lui (e non per niente il titolo è la rivendicazione della vendetta da parte di Dio e, nella teologia cristiana, un primo accenno alla necessità del perdono tra gli uomini). Il film si snoda attraverso una narrazione che dà riferimenti di tempo e di luogo precisi, come se il regista fosse un entomologo che scruta i suoi personaggi con la lente d'ingrandimento, anche mentre soddisfano i loro bisogni più elementari. Il sesso qui è visto come un semplice atto bestiale e brutale, che non dà nessuna soddisfazione anche quando non è prezzolato. E nei casi estremi, come quello della relazione, sempre negata ma indubbiamente consumata (benché molto ambigua) tra il padre e la moglie del protagonista. Il montaggio serrato e una fotografia multiforme (di Sinsaku Himeda) contribuiscono alla bella riuscita di questo film troppo misconosciuto, nel quale si apprezzano interpreti di grande valore, dall'enigmatico Ken Ogata al dimesso Rentaro Mikuni, per arrivare, almeno una volta alle donne, che riescono a ritagliarsi una parte importante, come Mitsuko Baisho (la moglie ambigua), Mayumi Ogawa (la donna perduta che gestisce un'ambigua pensione) e Nijiko Kiyokawa, la madre dell'affittacamere, rosa dal morbo del gioco e del voyeurismo.
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