Regia di Shohei Imamura vedi scheda film
Imamura impiega cinque anni di lavorazione per ricostruire i settantotto giorni di latitanza del truffatore e serial killer Akira Nishiguchi, noto in Giappone come il “re dei criminali”, e giustiziato l’11 dicembre del 1970. Nel film, tratto dal libro di Ryuzo Saki, il protagonista è chiamato Iwao Enokizu, ma il resto della storia è autentico: una vicenda sviluppata nel tempo con il rigore tipico di Imamura, che stempera il dramma distribuendone la sostanza, con pennellate lunghe e precise, su un tessuto narrativo liscio come la seta, che non si increspa di fronte all’orrore, né si gonfia sotto la spinta delle emozioni. Il finto professore di chimica dell’Università di Kyoto, che attraversa un’intera nazione uccidendo vittime imbelli e rubando denaro, è l’incarnazione estrema dell’istintualità brutale che cova sotto la facciata pulita della moderna società giapponese, apparentemente impegnata nella crescita del Paese, ma, sotto sotto, brulicante di bassi appetiti. Sul fondo di questo humus vischioso, il processo di modernizzazione incontra un attrito che rallenta la corsa e soffoca la speranza, con la stessa crudeltà con cui Iwao defrauda e sopprime le sue vittime, dopo averle irretite e illuse. Egli è l’emblema di tutto l’antico marciume che il Giappone cerca in ogni modo di lasciarsi alle spalle: la scena finale del film ben rappresenta la rabbia con cui la parte sana della nazione vorrebbe definitivamente sbarazzarsi dei suoi mali nascosti, che fermentano in tante oscure sacche di ignoranza ed oppressione. La locanda Asano, sede di prostituzione, di sfruttamento della donna, di vizi di ogni genere, è il posto ai margini del mondo in cui il retaggio del feudalesimo si trasforma in degenerazione metropolitana. Contrariamente a quanto accade nell’albergo gestito dai genitori di Iwao, lì la tradizionale ospitalità nipponica si mette al servizio della clandestinità, offrendo rifugio agli avventurieri, ai giocatori d’azzardo, agli adulteri. Quel luogo seminascosto è l’angolo in cui è rimasta annidata la vecchia polvere che il vento della modernità non è riuscito a spazzare via: un recesso in cui la continuità col passato si è ridotta ad un cupo anacronismo, aggrappato al presente come una crosta rugginosa, ma ormai privo di qualsiasi contenuto culturale. Con La vendetta è mia, Imamura prosegue, aggiornandola, la sua cronaca di una società che, sul piano collettivo, spinge verso il progresso ed il riscatto economico e morale, mentre, a livello individuale, è afflitta da una profonda crisi di identità.
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