Regia di Shohei Imamura vedi scheda film
Il Narayama è la montagna dei defunti, su cui gli anziani vengono accompagnati dai figli, per attendere la morte nel silenzio e nella solitudine, una condizione che equivale alla vicinanza con la divinità. Questo è l’unico elemento poeticamente sublime in un Giappone arcaico e primitivo, in cui l’uomo condivide, con il resto del regno animale, gli impulsi sessuali e gli istinti aggressivi. La bestialità si manifesta nell’incesto, nella zooerastia, nel linciaggio, nell’infanticidio, che si consumano come riti esoterici, in un’umanità dedita alla vita come ad una caotica lotta contro gli spiriti del male. Il peccato originale si moltiplica, tra gli abitanti di un piccolo villaggio rurale, assumendo in ognuno una forma diversa: ogni individuo ha la propria personale condanna da scontare, e a questa cerca di ribellarsi con tutte le sue forze, senza alcun vincolo morale. La povertà, la malattia, la vedovanza, l’impossibilità di amare sono le disgrazie che rendono l’uomo inquieto e vorace, sullo sfondo di una natura selvaggia che rispecchia in pieno i suoi ancestrali appetiti. L’intensità espressiva di Imamura, che trasforma il realismo in passione narrativa, si nutre qui di una sorta di brutale armonia, in cui l’emotività vive allo stato brado, e per questo risplende di autenticità. I ritratti a tutto tondo dei personaggi - che, nelle opere di questo autore, sono la struttura portante dell’impianto filmico – assumono qui un aspetto coriaceo e spigoloso, però fiammeggiante di vitalità, come in certi dipinti di Erich Heckel, in cui la durezza è la provata robustezza del cuoio, e l’irregolarità del tratto è il ruvido pungolo della carnalità. In questo modo la bruttezza diventa carattere, e l’oscenità si disperde nei rivoli di un lirismo selvatico, in cui la trasgressione si copre di un aroma speziato e di una luce silvestre.
In questo mondo popolato di corpi che si rivoltano nel fango, l’anziana Orin, matriarca della comunità, e ormai prossima a compiere l’estremo pellegrinaggio, è una figura pacificatrice, che sovrintende all’amore e all’odio, conciliando tutti i contrasti nel quadro di una necessità cosmologica. Il suo esempio insegna la rinuncia alla guerra ad oltranza, alla resistenza oltre il limite imposto dal ciclo vitale, e la sottomissione alle leggi dell’universo. Il modo in cui la donna dirige le danze nella sua famiglia terrena è la recita di una ballata di corteggiamento, rivolta alla dimensione superiore a cui sta per consegnarsi spontaneamente.
Palma d’Oro a Cannes nel 1983, questo film, tratto dal libro Uomini di Tohoku di Shichiro Fukazawa, è un remake dell’omonimo film del 1958 diretto da Keisuke Kinoshita.
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