Regia di Nagisa Oshima vedi scheda film
La cerimonia riassume in un paio d'ore la poetica di N. Oshima e insieme il senso dell'identità giapponese traumatizzata dal crollo delle strutture sociali e delle tradizioni in seguito alla tremenda sconfitta del secondo conflitto mondiale e sconvolta dai cambiamenti storici e politici dovuti all'apertura al mondo esterno.
Il film, tra i più noti in Occidente del regista, è un angosciato flusso di coscienza, è tutto costruito sull'introversione del protagonista Masuo Sakurada (K. Kawarazaki) o meglio sull'analogia tra la chiusura e l'oppressione della propria anima e la prigione morale e convenzionale della casa, luogo simbolo della detenzione del potere tradizionale, della sofferta e precaria unione della famiglia, a sua volta impersonata dal nonno vanamente autoritario Kazuomi (Kei Sato), il cui ruolo dovrebbe essere rimpiazzato proprio da Masuo. Masuo però soffre in prima persona crisi intime e appunto storiche, tra amori e parentele intricate e coscienza di un precario status quo che tenta grottescamente e con toni cupi di sopravvivere, di ritualizzare ciecamente la sua essenza ormai morta: difatti tutto pare essere solo una sequela di funerali e matrimoni, dove i primi sembrano avere più dignità dei secondi, ancora più cadaverici perché inscenati e contrastati.
Oshima si affida alla memoria, ai fantasmi del passato privato e collettivo, alla coscienza ossessiva che commenta i rimbalzi temporali, la fissità della mdp, le inquadrature attente alla composizione ordinata, distaccate anche nei primi piani e nei momenti di intimità. In senso lato, un rimembrare e rimuginare che sembrano potersi accostare all'atmosfera straniante di certo Alain Resnais, un confrontarsi col passato e un'analisi di coscienza e inconscio che potrebbero forse far pensare a certe introiezioni alla Carlos Saura, ma in Oshima più ancorate alla concretezza e alla immobile stilizzazione.
Toru Takemitsu (1930-1996) scrive una musica assolutamente inquieta e meditativa, cupa ed emergente come pensieri improvvisi. Gli archi a cui è affidata la partitura vengono sfruttati nelle loro caratteristiche più serpeggianti: matasse di melodie intrecciate che si inseguono negli sbalzi di altezza, note fisse che si alternano a glissandi lamentosi, armonie espressioniste che veicolano un senso di compostezza nipponica, esteriormente ordinata ma interiormente sottosopra. La musica segue fedelmente i pensieri e il regista per mezzo della accondiscendenza col montaggio e soprattutto è la metafora più aderente al flusso di coscienza che sviluppa tutto il film, alternandosi ai silenzi, sorta di paletti astratti che circoscrivono lo spazio sonoro di melodico atonalismo dalle frasi musicali lasciate in sospeso e di nuovo riprese.
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