Regia di Akira Kurosawa vedi scheda film
Verosimilmente Vivere è il film che meglio di tutti esemplifica quanto la vita e la morte non siano solo, e non siano soprattutto, fenomeni biologici, ma contengano nella loro semantica tante altre verità. Sono stati dell'anima, testimonianza, tracce della propria presenza - o assenza - nel mondo. Facciamo la conoscenza con il nostro protagonista, l'impiegatucolo statale Watanabe, in un momento della sua esistenza in cui egli è vivo solo nell'apparenza. Timbra scartoffie da 30 anni per tutto il giorno; non è utile a nessuno; non è utile nemmeno a se stesso. Vedovo da 25 anni, non si è mai risposato, per rispetto a un figlio che per ricambiare tanta gentilezza, non vede l'ora di intascare la sua liquidazione. Si trascina, senza scopo, con l'occhio spento. E' sottomesso fin nella postura corporea a quella vita che lo sta divorando, sempre curvo, come se ogni secondo chiedesse con riverita educazione il permesso di poter stare al mondo. Poi, un giorno, irrompe il male che ne decreta la condanna a morte entro breve tempo. Un uragano si abbatte sulla anonima routine della sua esistenza, e la rivoluziona. Cosa fare? Continuare a recarsi al lavoro, come se nulla fosse, sepolto vivo sotto una montagna di carte? No, certamente: la noia e l'anonimato lo ucciderebbero ancora prima del cancro. L'uomo tenta allora di trovare rifugio in tutti quei piaceri che si è negato fino a quel momento: l'alcol, la gozzoviglia, la compagnia femminile. Watanabe pretende di risuscitare a nuova vita attraverso il godimento delle effimere cose; ed invece resta insoddisfatto e irrealizzato, esattamente come prima.
Dal buio dell'autorepressione e dell'appagamento fasullo, Watanabe passa infine alla vivida luce della comprensione. Ma che cos'è il senso della vita in Kurosawa? La realizzazione del piccolo parco è in fondo un granello di sabbia nello spietato meccanismo del mondo. Chi lo sa, magari un giorno verrà cancellato per far posto a un palazzo. E comunque, il merito della realizzazione del parco non verrà mai riconosciuto al povero impiegato. I politici si accapigliano per accaparrarsi i ringraziamenti a cadavere ancora fresco. I colleghi di un tempo, da sbronzi, promettono di seguire il suo esempio. Il giorno dopo timbreranno ancora scartoffie senza soluzione di continuità. La reiterata e prolungata verbosità futile delle pseudocelebrazioni post mortem serve quindi a dare sostanza ad una verità profonda: Watanabe non ha agito per chi gli è sopravvissuto. Non ha agito per rimanere nella loro memoria, per conquistarsi il loro consenso. E non credo nemmeno che abbia agito per guadagnarsi la gratitudine delle madri dei bambini del posto; gratitudine che è sgorgata ad ogni modo copiosa. No, il senso della vita raccontatoci dal film è un piacere personale, esclusivo e probabilmente egoistico. Tant'è vero che Watanabe decide di vivere in solitudine, nel parco, quell'incredibile e duplice momento che è stato il finale della sua esistenza (la felicità massima ed insieme la morte). Da una parte Kurosawa concede il raggiungimento della felicità; dall'altra, la include nel suo gigantesco gioco di solitudini.
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