Regia di Akira Kurosawa vedi scheda film
"Vivere", nonostante che non sia uno dei film più celebrati di Kurosawa, è uno dei suoi film più belli e sentiti. Avvicinato a "Umberto D." (1952) di De Sica, uscito nello stesso anno, vicino anche a certi film di Ozu, come "Il viaggio a Tokyo" (che però è di un anno successivo), figlio di tanta letteratura russa, da Dostoevskij (soltanto l'anno prima Kurosawa aveva portato sullo schermo "L'idiota") fino a Cechov e Gogol, "Vivere" è «l'avventura interiore di un uomo comune che lotta», più che contro la morte, contro il fallimento della propria vita, che potrebbe essere sancito dalla morte ormai imminente, la quale lascia però al protagonista una pagliuzza di speranza cui aggrapparsi per riscattare il vuoto di una vita "rinunciata" in favore del figlio, che però non mostra la benché minima riconoscenza. Kanji Watanabe non è solo al mondo, ma è tuttavia un uomo solo di fronte alla tragicità della morte, dissimulata, anche dai medici, sotto l'ipocrisia delle frasi di circostanza. Kurosawa, il più fordiano dei cineasti giapponesi, sorprende con un film quasi bergmaniano (non si può fare a meno di pensare al "Posto delle fragole", che, si badi bene, è del 1957), che si riallaccia anche, quanto meno nella seconda parte, che a mio parere è quella più riuscita, al precedente di "Rashômon" e al "Quarto potere" di Welles, dove diversi personaggi parlano in maniera diversa e da angolature spesso opposte del protagonista defunto. Kurosawa lancia comunque un messaggio finale abbastanza pessimista, con quel moto di rivolta, subito represso, da parte dell'impiegato Kimura, l'unico che sembra avere imparato la lezione del povero Watanabe, detto la Mummia.
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