Regia di Vittorio De Sica vedi scheda film
Un capitano d’industria tedesco, a cui un tumore lascia pochi mesi di vita, decide di affidare le redini dell’azienda a un figlio con cui non ha più contatti da anni e lo convoca nella sua lussosa residenza; qui si è nascosto in soffitta il primogenito, ex ufficiale accusato di crimini di guerra, che si ostina a indossare l’uniforme della Wehrmacht. Probabilmente De Sica non si è mai allontanato tanto dai suoi percorsi abituali: c’è sempre Zavattini (co)sceneggiatore, ma è un corpo estraneo in un prodotto turgido, sontuoso e pretenzioso (basta vedere i nomi tirati in ballo nei crediti: Sartre, Brecht, Guttuso, Šostakovic). Recitazione rigida, impianto melodrammatico, clima teatrale (due scene si svolgono proprio a teatro, ma quasi non si nota la differenza): un film di una pesantezza opprimente, che si allenta solo nella scena notturna per le strade cittadine. Ed è anche ideologicamente discutibile, concedendo allo sconfitto Maximilian Schell una certa tragica grandezza che va ben oltre l’onore delle armi.
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