Regia di Akira Kurosawa vedi scheda film
La lettura di “Nella jungla di Ussuri” e “Dersu Uzala” dell’esploratore Vladimir Arseniev guida Kurosawa in questo lungo viaggio in luoghi incontaminati, dove il linguaggio degli alberi e della neve, dei ghiacci e del vento, delle acque vorticose e dei placidi laghi parla ad un piccolo uomo che sa capire e rispettare
Into the Wild nel lontano Ussuri, la taiga in tutte le stagioni e uomini che dentro quegli orizzonti sconfinati trovano sé stessi nell’amicizia e in un rapporto con la natura che è fatto di lotta e convivenza pacifica, di amore e odio, comunque di assoluta vicinanza.
Questo è l’ennesimo capolavoro di un genio che ogni volta, fino alla fine dei suoi giorni, ha saputo ridare alla sua vita le ragioni per dire, come il vecchio di Sogni,“ la vita è bella, anzi, è entusiasmante”.
La lettura di “Nella jungla di Ussuri” e “Dersu Uzala” dell’esploratore Vladimir Arseniev, con il racconto di viaggi in Siberia all’inizio del secolo e dell’incontro con Dersu Uzala, mongolo della tribù Goldi, guida Kurosawa in questo lungo viaggio in luoghi incontaminati, dove il linguaggio degli alberi e della neve, dei ghiacci e del vento, delle acque vorticose e dei placidi laghi parlano ad un piccolo uomo che sa capire e rispettare, e quest’ uomo che un’epidemia ha privato di casa, famiglia, tutto, incontra un giorno il piccolo drappello di uomini della città e insegna loro ad essere “buoni omini”, a lasciare i segnali dove la natura li mette, a difendersi senza distruggere, a rispettare i silenzi del vecchio eremita giapponese che sta pensando, e nel pensare vede un giardino pieno di fiori e la donna amata persa tanti anni prima.
Maxim Munzuk, il direttore del Teatro di Kyzil e Yuri Solomin proveniente dal Teatro Maly di Mosca, sono scelte perfette per i due ruoli. Mifune, che rifiutò la parte, non sarebbe stato altrettanto adeguato.
Il primo è un solitario uomo della taiga, il legame animistico con la natura, proprio della sua cultura, lo rende una preziosa guida alla sopravvivenza per uomini che altrimenti sarebbero persi.
Fiuta il vento, parla col fuoco, uccide solo una specie di animali
“ Se si uccidono tutti gli animali di cosa ci nutriremo?”.
Si muove con sicurezza e velocità col suo corpo tarchiato, sulle spalle lo zaino dalle mille risorse, inventa rifugi dove solo la morte potrebbe arrivare con la tormenta, ha una mira infallibile, ma quella tigre uccisa per salvare l’amico Arseniev lo costringe ad una scelta che cambierà la sua vita.
In quel gesto Dersu ha dovuto fare i conti con la parte più sacra di sé, riconoscendo l’appartenenza a quel mondo degli uomini con cui ogni panteismo arriva, prima o poi, a scontrarsi.
Dersu sente ora che lo spirito della taiga lo sta abbandonando e l’epilogo della storia si colora di struggente senso di sconfitta nell’impatto con la città e le sue leggi insensate.
In un mondo dove il predominio è dell’artificio, Dersu è destinato a scomparire. Dopo aver dominato con la sua presenza gli splendidi scenari siberiani, che Kurosawa esplora con sguardo affascinato, registrandone suoni e colori con gioia quasi infantile, Dersu diventa, ora sì, un piccolo uomo senza vita, chiuso in una camera di città: “Come possibile omini vivere in scatola?”
Lascerà traccia di sé in un telegramma del Comune che annuncia ad Arseniev la sua fine violenta e nel tumulo scavato nel suolo ghiacciato, su cui l’amico pianta il bastone a doppia punta.
Tre anni dopo le ruspe avranno fatto sparire anche quello.
Arseniev, a cui Solomin dà la giusta dose di intensità dolce e maschia, è l’amico rapito dal fascino di Dersu, a cui si affida ciecamente. Il loro abbraccio, dopo la separazione di cinque anni e il ritrovamento casuale nella taiga, quel suo guardare commosso e partecipe la semplice grandezza dell’amico, parlano di legami a cui l’uomo non può rinunciare, pena l’annullamento di sé, la perdita di quel “canto del mondo” per cui non esistono contropartite.
Medaglia d’oro al Festival di Mosca, Dersu Uzala ricevette l’ Oscar il 29 marzo 1976 vincendo il premio per il miglior film straniero.
Un “poema ecologico” nell’infuriare di un decennio dove tutto doveva essere “politico”, dunque, chissà perché, non occuparsi della polis più vera degli uomini, un “imperatore” che a 65 anni deve cercare co-produzioni all’estero (Unione Sovietica, stavolta) per poter lavorare e debuttare di nuovo come un giovane.
C’è di che meditare.
www.paoladigiuseppe.it
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