Regia di Akira Kurosawa vedi scheda film
L’epica di Akira Kurosawa è la saga silente, multiforme e atemporale degli eroi della conoscenza. Il sapere e l’ignorare sono le modalità secondo cui i suoi personaggi si confrontano con la realtà e che determinano le sorti della loro battaglia esistenziale. Il cacciatore Dersu Uzala vive finché riesce a sentire la taiga, la foresta ed i suoi abitanti come suoi, tanto da poterne condividere il respiro ed interpretarne i mutamenti: egli legge ogni traccia nel terreno, ogni scia di un movimento in mezzo ai rami come se fossero le espressioni di un volto attraversato da pensieri ed emozioni. In questo microcosmo egli è il re, che fa da guida ai soldati venuti da lontano come un padrone di casa conduce gli ospiti attraverso le sue stanze. La sua solitudine è autonomia, è potere egemonico ed esclusivo su un mondo di cui custodisce ogni segreto: e questo paesaggio è la sua anima esteriorizzata, trasformata in territorio, in elementi naturali, in esseri viventi, come in una fiaba, in cui l’astratto prende forma e diventa un’entità fantastica. L’io narrante, in questo film, si lascia placidamente trascinare nell’incanto; per questo il tono è calmo, carico di una serena aspettativa, che è la pazienza di chi, senza timore, si fa prendere per mano e portare attraverso luoghi misteriosi. Non si avverte la tensione che prelude a grandi eventi, o l’enfasi che prepara l’esplodere delle passioni; regia e sceneggiatura sembrano adagiate nell’attesa che le cose accadano, che la storia progredisca con i piccoli passetti di un omino goffo, che è troppo impegnato ad accarezzare il suolo per illudersi di poter volare. La sua umanità è fatti di sensi, di vista, di udito, tatto e olfatto, di carne che tocca carne e terra e ne fa la sua unica ricchezza. L’incertezza, l’imperfezione, il declino, che in altre opere di Kurosawa sono le affezioni negative della mente e della coscienza, sono qui riferite alla percezione fisica, alla capacità di porsi in sintonia con l’ambiente circostante, nutrendosi delle sue risorse. La tragedia di Dersu Uzala inizia quando scopre di non sapere più sparare ed è costretto ad abbandonare la campagna per andare a vivere in città: la perdita dell’habitat è la controparte primordiale, concreta e, in un certo senso, anche moderna e illuminista, della classica perdita dell’onore e della gloria.
In questo film la poesia rinuncia alla veste altisonante della tradizione, e diventa pacata riflessione sulla semplicità; il mito della saggezza scompare di fronte alla forza dell’esperienza pratica, che riesce a cogliere i lievissimi fremiti ed i deboli sussurri delle cose inanimate. Prendere tutto come viene, accompagnandolo delicatamente, nel suo traballante divenire, è il principio della docilità, che consegue la vittoria con la resa, ed arriva a comandare grazie ad un atto di sottomissione.
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