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La contessa scalza

Regia di Joseph L. Mankiewicz vedi scheda film

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La recensione su La contessa scalza

di (spopola) 1726792
8 stelle

Un altro film sul torbido mondo dello spettacolo barocco e appassionato, che viene immediatamente dopo Eva contro Eva (se la'  era il teatro, questa volta e' il cinema ad essere messo in discussione), col quale condivide lo stesso impianto accusatorio oltre alla stessa veemenza e cattiveria con al centro una Ava Gardner di splendente bellezza.

 

Rossano Brazzi, Ava Gardner

La contessa scalza (1954): Rossano Brazzi, Ava Gardner

 

Chi è nel fango tende a guardare le stelle.

 

Implicitamente ispirato alla favola di Cenerentola (e il riferimento è già chiaramente rilevabile fin dal dissacrante e dissacratorio titolo che è di fatto una dichiarata citazione in negativo  del “tema” relativo alla scarpetta, ma invertendone volutamente il senso con una punta di demistificante,  critico cinismo intriso di vetriolo capace di trasformare la sua protagonista in una amara, sconfortata e perdente eroina del nostro tempo) il film di Mankiewicz  rivisita e aggiorna a suo modo quella novella antica liberandola di tutta la mielosa sdolcinatura che contraddistingue il romanticismo espanso della fonte, almeno nelle versioni più conosciute che sono quelle di Perrault e dei fratelli Grimm.

Il realismo implacabile e spietato della messinscena esclude infatti da subito l’ipotesi di un  lieto fine posticcio e “accomodante” (che di solito prefigura quell’”e vissero felici e contenti” conclusivo che solo le fiabe - e non la vita reale - possono spacciare per possibile). E’ sufficiente dunque  la prima inquadratura affollata di ombrelli neri girata nel cimitero di Rapallo sotto una pioggia incessante, per spazzar via definitivamente ogni possibile ipotesi di ottimismo. Mostra infatti la mesta celebrazione di un funerale ponendoci di fronte a un maestoso monumento funebre che troneggia al centro della scena, l’imponente statua dalle sembianze ben riconoscibili (quelle della divina Ava), che cerca di fissare nel marmo tramandandola ai posteri, la travolgente bellezza di una donna da poco deceduta esposta in tutto il suo spudorato splendore.

Sappiamo quindi subito come andrà a finire: ci manca solo di conoscere come e perché si è arrivati a questa luttuosa conclusione.

 

Ava Gardner

La contessa scalza (1954): Ava Gardner

 

La contessa scalza è dunque un decadente melodramma a fortissime tinte che riproduce in qualche modo, estremizzandone i lati negativi, gran parte degli archetipi della novella (e dei caratteri in essa rappresentati), depurandoli però dalla patina del “mito” e restituendoli così alla crudele quotidianità dell’esistenza, a partire proprio dalla figura fortemente emblematica di colui a cui è affidato il compito di vestire i panni del moderno  principe azzurro (impotente e adulterato) della storia: il conte Vincenzo Torlato-Favrini, che qui diventa una presenza catarticamente determinante (addirittura il deux ex machina) che spinge il racconto verso la tragicità dell’epilogo che segnerà anche la fine delle illusioni utopiche di una “impossibile” redenzione (anche sociale) della protagonista.

 

Enzo Stajola

La contessa scalza (1954): Enzo Stajola

 

Il film è attribuibile in toto a Mankiewicz, autore anche della corposa sceneggiatura che fu pure candidata all’Oscar (sembra addirittura che dovesse costituire la base per un successivo romanzo che il regista avrebbe voluto pubblicare ma che poi non  ha mai visto la luce). Si avverte comunque proprio dal furore iconoclasta che la attraversa tutta, e rappresenta uno degli elementi di maggior pregio della pellicola, la necessità impellente del regista di confrontarsi, attraverso il racconto di questa “tragedia barocca” un po’ kitsch, con il nebuloso mondo hollywoodiano, che probabilmente avvertiva così condizionante e stretto (un nemico insomma) da sentirsi quasi soffocato dalle sue pressanti interferenze coercitive, tanto da sentire il bisogno irrinunciabile di togliersi qualche scomodo sassolino dalla scarpa.

Si evince tutto questo dallo sguardo impietoso con cui analizza e descrive proprio “quel” microcosmo intriso di perfido cinismo composto da una variegata fauna altrettanto insensibile ed egoista, perfetta per incarnare e rendere palese la becera inconsistenza di un universo all’apparenza così allettante, ma all’atto pratico amorale e disonesto come una nuova Gomorra, con tutte le sue  illusioni falsamente consolatorie e spesso distruttive.

Il mondo del cinema dunque, ma anche quello altrettanto “fasullo” di quella società opulenta e bolsa (equamente divisa fra la blasonata nobiltà in declino e la nascente borghesia dorata degli ultraricchi) che  ci girava intorno e popolava in quegli anni le ambite mete elitarie della Riviera Ligure compresa fra Rapallo e Portofino dalla stratosferica bellezza  intonsa non ancora deturpata dalla cementificazione inarrestabile della speculazione edilizia (con un occhio speciale rivolto proprio alla famiglia Torlato-Favrini che più direttamente si troverà a incrociare e a scontrarsi con la protagonista, una fulgida eroina dalla bellezza irreale, inaccessibile e fintamente serena, che vuole provare a se stessa di essere libera” (Jacques Lourcelles) ma che finirà invece per pagare a caro prezzo i suoi sogni di gloria e la sua sete di indipendenza in anni in cui la donna era sempre e comunque subalterna al maschio dominante qualunque fosse il suo status e che per imporsi poteva solo contare sull’arma della bellezza e della seduzione.

La nostra protagonista che veste i panni della carnale Maria Vargas, ribelle e indomita ballerina di flamenco piena di fuoco e di passione, plasmata sulla mitologia di molte dive dell’epoca, è proprio una di queste perché di lì a poco con l’aiuto di un regista che diventerà per lei una specie di paterno Pigmalione (l’acidissimo ma tenero Harry Dawes), uscirà dal bozzolo come una farfalla, per tramutarsi in una delle tante scintillanti, irraggiungibili stelle oggetto del desiderio collettivo rimanendo però incapace di accettare “mediazioni” di comodo e compromessi, il che le renderà  abbastanza periglioso il suo cammino.

E’ dunque  una donna fragile, ma a suo modo anche caparbia e fiera che intende  essere (e rimanere) indipendente ad ogni costo, senza badare al prezzo da pagare, e sarà proprio per mantenere fede a questo irrinunciabile dettato  di assolutismo, che andrà incontro a una breve ma intensissima e  travagliata esistenza fra frustrazioni e catastrofi che finiranno per frantumarle il cuore trasformandola prima (col nome d’arte di Maria D’amata), in un’affermata star del cinema bramata dal mondo intero e poi, dopo le infelici nozze blasonate, in Maria Torlato-Favrini (“l’ultima contessa di quella dinastia” come la definirà proprio il marito guardandola estasiato mentre fa il bagno in mare ben consapevole che quella non potrà che essere  la sua sorte, vista la sua impossibilità a procreare,  come verremo poi a scoprire nel prosieguo del racconto, una menomazione fisica che sarà poi la ragione per la quale la fulgente bellezza della donna che verrà privata brutalmente della vita,  finirà per essere riprodotta e immortalata nelle immobili spoglie di una statua di marmo dopo un finale ad alto tasso di adrenalina equamente diviso fra passione e  tormento,  folle gelosia e voglia di possesso).

 

Ava Gardner, Humphrey Bogart

La contessa scalza (1954): Ava Gardner, Humphrey Bogart

 

 

La vita di tanto in tanto si comporta come se avesse visto troppi brutti film.

 

Una tematica decisamente  forte e scottante dunque (ma a suo modo anche un tantino  troppo ingarbugliata si potrebbe dire).

Mankiewicz infatti  non teme di sfiorare anche il ridicolo nello scegliere di lavorare intorno a materiali altamente melodrammatici ma frusti ed obsoleti oltre che di basso profilo popolare quasi da fotoromanzo. Ne  accetta anzi scientemente il rischio, uscendone peraltro ampiamente vincitore poiché il rovello critico che lo muove è più forte del pericolo che ha inteso correre e che lo ha indotto a trovare il coraggio di mettersi alla prova nello sperimentare una specie di sadicità dei sentimenti utilizzata per mettere alla gogna (attraverso il ritratto di questa giovane donna energica, autolesionista e per alcuni tratti persino masochista portatrice di una bellezza prorompente e fuori dal comune che diventerà per lei una specie di dannazione) prima il sistema cinema cesellando un ritratto scomodo dei personaggi ambigui e corrotti che lo popolano, e poi – di conseguenza - la fatuità altrettanto perniciosa della società mondana che ci gira(va) intorno - il cosiddetto “International Set” come veniva definito allora - che lui conosceva fin troppo bene.

Inevitabile che avesse trovato forti opposizioni nella Mecca del cinema che non amava certo vedere messe a nudo le scomode verità nascoste dietro il velo dorato della rappresentazione ufficiale quasi idilliaca ma posticcia che la identificava come  il luogo ideale per fabbricare sogni.

E così fu infatti:  gli insormontabili bastoni che gli furono messi  fra le ruote,  ne impedirono di fatto la realizzazione in loco, facendo diventare ancor più determinato Mankiewicz nel cercare di trovare il modo per rendere visibile al mondo intero il suo personale punto di vista sulle cose, tanto da indurlo ad assumere anche il ruolo di produttore di se stesso, pur consapevole  che con le sole sue forze (anche economiche) non sarebbe mai stato in grado di portare a termine questa temeraria operazione (e infatti il progetto ambizioso ed “eccessivo” che aveva così tanto caldeggiato,  riuscì a realizzarsi e a prendere davvero corpo, solo grazie agli interventi di un intelligente e altrettanto temerario produttore italiano, Robert Haggiag al quale si unirono pure Angelo Rizzoli e Francesco Magli, quest’ultimo in veste di direttore associato di produzione).

Trasferiti dunque armi e bagagli in quel di Cinecittà (la Hollywood in riva al Tevere), fu proprio il nostro cinema a fornire un adeguato contributo per quanto riguarda il parterre degli interpreti, in anni ancora particolarmente fecondi, prossimi come eravamo a quelli che erano stati gli splendori del neorealismo con i suoi molteplici prestigiosissimi riconoscimenti internazionali che avevano reso la nostra cinematografia celebre in tutto il mondo  e che in virtù di questo, le permetteva di godere  di un meritato credito che si sarebbe protratto ancora per molto tempo (La contessa scalza è del 1954, lo stesso anno in cui furono realizzate qui in Italia  opere fondamentali come Senso di Visconti, Cronache di poveri amanti di Lizzani, La strada di Fellini e La spiaggia di Lattuada).

E’ dunque singolare (e per certi versi anche patetico) ma tutt’altro che sorprendente, ritrovare nel cast alcune delle nostre piccole glorie provinciali (sia pure in parti secondarie) accanto a nomi davvero  ” sacrali” del divismo americano ai quali erano stati ovviamente assegnati i ruoli più importanti del racconto: Ava Gardner in primis, portatrice di una bellezza davvero incommensurabile, fisicamente perfetta, ma leggermente carente sotto il profilo delle qualità drammatiche che la figura di Maria Vargas richiedeva invece in abbondanza (una presenza comunque carismatica la sua e quasi imprescindibile, anche se si trattava invece di una seconda scelta perché aveva preso il posto reso vacante da Rita Hayworth, inizialmente immaginata dal regista come la migliore opzione per poter dare vita a questo infuocato ruolo che avrebbe persino potuto rilanciarla essendo ormai la sua carriera in leggera ma inarrestabile fase calante che però rifiutò la parte perché trovata  piena di imbarazzanti tratti autobiografici con i quali riteneva pericoloso fare i conti) e qui affiancata dal disincanto sornione di un efficace Humphrey Bogart (relegato però in un personaggio che gli stava un tantino stretto,  ma comunque pedina essenziale del racconto) oltre che dalla compassata arroganza di Edmond O’Brien – il migliore in campo - nella parte di un subdolo agente pubblicitario (che vinse persino un Oscar come attore non protagonista per questa sua ottima, corrusca caratterizzazione), e dal riottoso aplomb di Marius Goring, già attore feticcio del duo Pressburger/Powell (ricordato soprattutto per essere stato uno dei protagonisti di Scarpette rosse ma che sotto la loro direzione aveva girato anche altre tre pellicole: Colpo di mano a creta, La spia in nero e Scala al paradiso).

 “Mostri sacri” insomma  celebri e iconizzati ai quali vanno ad aggiungersi poi due nomi in ascesa come Rossano Brazzi qui per la verità un po’ spaesato (coraggiosissimo comunque  ad accettare di interpretare un personaggio per l’epoca imbarazzante, soprattutto in relazione alla sua costruenda fama di fascinoso latin lover) e una subdola Valentina Cortese (colpevolmente citata con il cognome storpiato in Cortesa sia nei titoli di testa che di coda) entrambi non insoliti a trasferte oltre oceano.

Le piccole glorie provinciali a cui ho accennato prima (che fanno quasi tenerezza in questo contesto) erano in parte mutuate proprio dall’eredità lasciata dal neorealismo a partire da un cresciutello (come età anagrafica) Franco Interlenghi, indimenticabile Sciuscià di De Sica (e qui poco attendibile interprete del ruolo del  fratello spagnolo della protagonista) o da un ormai adolescente Enzo Staiola (il bambino preso dalla strada di Ladri di biciclette sempre di De Sica) qui .per la verità impiegato in un personaggio davvero minimale al quale è riservato solo un fuggevole passaggio  in alcune sequenze iniziali capaci comunque da sole di rinverdire la sua momentanea fama (già in gran parte sfumata)  grazie alla forza nostalgica della memoria, almeno quando il film fu distribuito in sala.

L’elenco include anche il nome di Alberto Rabagliati che – ricordiamolo – nel 1927 dopo aver vinto un concorso come sosia di Rodolfo Valentino[1] scomparso prematuramente l’anno prima e oggetto di una follia collettiva  tutta virata al femminile, era stato anche  provinato in America per tentare  di far rivivere, attraverso la somiglianza del suo volto, il mito di quel divo capace anche da morto di mantenere attiva  la fanatica isteria da vedove inconsolabili delle donne che non si rassegnavano ad averlo perduto così presto.[2]

 

Ava Gardner

La contessa scalza (1954): Ava Gardner

 

Un copione deve avere senso, la vita no.

 

Se vogliamo cercare il pelo nell’uovo, potremmo dire  che Mankiewicz questa volta forse  non riesce sempre a tradurre perfettamente in immagini tutte le acute intuizioni (psicologiche e sociologiche) che la densa, esuberante sceneggiatura suggerisce, ma costruisce comunque nel suo insieme una pellicola intelligente ed elegante (anche un poco stravagante, se vogliamo) che ebbe nell’immediato un’accoglienza tiepida (la rivalutazione è avvenuta in tempi più recenti) ma non in Francia dove fu da subito  apprezzatissima: Sadoul la definì infatti  “un’opera un po’ fuori dal tempo che somiglia un poco ai vecchi filmoni italiani dell’epoca del muto ma realizzata con una convinzione e una serietà davvero seducente” capace di tenere incollato alla poltrona lo spettatore senza un attimo di tregua,  mentre Lourcelles parlò addirittura di “arabeschi poetici, nostalgici e variamente lirici che sfociano in questo canto funebre in cui il film essenzialmente e profondamente consiste” che credo sia stata una definizione particolarmente apprezzata dal regista perché da come aveva organizzato il racconto, a me sembra che fosse  proprio questa l’impronta che intendeva dare alla pellicola: quella di un tragico, desolato rito funebre impaginato come se si trattasse di un sommesso cantico alla memoria.

Lo potremmo dunque definire anche noi un film un po’ crepuscolare dai  toni desolati e mortuari  ben diluiti  nell’originale struttura (per quei tempi) che frammenta in ben otto flashback (e quattro voci narranti) il puzzle di un racconto che scava a ritroso (un po’ alla maniera con cui Orson Welles aveva costruito  il suo Citizen Kane[3])  nella vita di questa fragile e sensibile stella del firmamento cinematografico che dal successo planetario (transitando attraverso amori particolarmente tormentati, disperate costrizioni, gelosie incontenibili e tradimenti perpetrati più per necessità che per piacere) passerà poi direttamente a quella fine tragica e improvvisa che lascia tutti con l’amaro in bocca.

Ma il film è anche la storia di un amore impossibile destinato a finire male scandito da Mankiewicz in tre sequenze davvero memorabili.

La prima è quella di un incontro del tutto casuale, quel magico momento in cui due persone in apparenza destinate  a stare appassionatamente (o tragicamente) insieme, si imbattono l’una nell’altra per una pura coincidenza temporale (come accade appunto nel film), resa speciale dal regista perché se ben si osserva, già da lì si può intuire che se la storia dovesse avere un seguito (come di fatto poi lo avrà) potrebbe diventare una dannazione per entrambi che nessuno però sarà capace di bloccare poiché è destinata ad essere vissuta fino in fondo seguendo l’impulso primordiale dell’attrazione senza riserve o recriminazioni che non permettono di  mettere ipoteche sul futuro né tantomeno farsi intimidire dai foschi presagi di predestinazione (quel che sarà sarà insomma perché è il fato  a farla da padrone).

Mi riferisco alla scena in cui Maria si è furtivamente allontanata per andare nel campo nomadi a ballare con gli zingari il suo flamenco sensuale e mentre sta danzando, si accorge che  un uomo (il conte appunto) che ha casualmente interrotto il suo malinconico viaggio solitario, la sta fissando come calamitato dal corpo sinuoso di quella  sconosciuta (non sa che si tratta di una star del firmamento hollywoodiano) talmente bella da sembrare irreale. I due non si scambiano nemmeno una parola si fissano soltanto intensamente in un gioco di sguardi talmente appassionato da far comprendere che qualcosa ha già toccato in quel momento i loro cuori.

La seconda scena è quella che si svolge all’interno di un Casinò in Riviera: Maria nella sua veste pubblica di compagna di un rozzo miliardario (Marius Goring), uno dei tanti amorazzi della sua errabonda vita alla ricerca della felicità, ha qui l’inaspettata sorpresa di trovarsi di nuovo davanti  quasi all’improvviso quel giovane conte già incontrato al campo nomadi. È’ in questa sequenza (ripresa da due differenti angolazioni non consequenziali ma riproposte in momenti diversi dalla pellicola) che la donna rompe il suo sodalizio con il borioso riccone nel bel mezzo di uno dei sui eccessi d’ira e di geloso possesso, semplicemente staccandosi dal suo braccio per prendere per mano quello che per lei è ancora uno sconosciuto e andare poi via con lui senza alcuna esitazione.

La terza è quella che si svolge invece dentro l’abitacolo dell’automobile del conte  quando  ciascuno dichiara all’altro in maniera indiretta (e dandosi persino ancora del lei come era consuetudine nell’alta aristocrazia) il proprio amore: “Che cosa fa qui, a parte essere venuto per me?” domanda lei laconica. “Non ho altri motivi” risponde lui solenne.

“Quando ha capito di essere venuto per me?” replica lei con un tono che ben evidenzia il battito crescente del suo cuore:  “Quando l’ha capito lei” le risponde  l’uomo con  voce appassionata: “ Lei lo sapeva. Come lo sapevo io”.

E il dado dunque è tratto: ciascuno ha messo il suo destino nelle mani dell’altro senza porsi alcuna domanda successiva (quel che sarà sarà appunto). Sanno solo che da quel momento le loro due vite così tanto bisognose di amore, saranno per sempre unite in un destino comune (che non potrà però avere un finale felice come in quella favola  che entrambi vorrebbero  emulare).

 

 

Non è mai troppo tardi per farsi un carattere.

 

Come si è visto dunque, i punti di vista sono diversi (ognuno potatore della propria verità), come diverse (e necessariamente circoscritte e contrastanti) sono le voci narranti che si passano di volta in volta il testimone per raccontare i soli brandelli che ciascuno di loro conosce di questa torbida vicenda, tutti perfettamente funzionali al tentativo di arrivare a restituirci (per quanto possibile) un profilo umano indiscutibilmente articolato, sfuggente e multiforme (e come tale  impossibile da ricomporre nella sua complessa esaustività) che lascia inevitabilmente piccole zone d’ombra inesplorate. Sono di volta in volta le voci dello scrittore/regista Harry Dawes che l’aveva scoperta giovanissima focosa danzatrice a piedi nudi di flamenco in un locale alla moda di Madrid[4], quella dell’addetto stampa Oscar Muldoom (il press-agent della sua avventura Hollywoodiana) e del  conte italiano Vincenzo Torlato-Favrini che dopo averla sposata la porterà  in Italia a vivere con lui  in una  magione un po’ sinistra (divisa con la devota sorella Eleonora) che potrebbe ricordare alla lontana quella altrettanto inquietante di Rebecca, la prima moglie di Hitchcock.  

Ascolteremo infine anche la voce postuma della stessa  Maria che parla di sé in prima persona riempiendo alcuni di quei vuoti a cui ho accennato sopra, dando così al film un tocco feticista–funerario che potrebbe persino collocarlo dalle parti di un altro memorabile film sul cinema come Viale del tramonto di Wilder.

Un “viaggio” davvero complicato quello immaginato dal regista  perché si sviluppa attraversando   tre differenti mondi: la realtà spagnola delle origini, l’industria del cinema di Hollywood  e  quello  snob ed elitario dell’aristocrazia italiana. Lo fa disseminando il suo percorso di inquietanti risvolti che ce li fa percepire chiusi e morenti come se preannunciassero la loro inarrestabile decadenza che segnerà la fine di una stagione, ormai rassegnati a dover celebrare il proprio funerale che si identifica in quello di Maria.

Edmond O'Brien

La contessa scalza (1954): Edmond O'Brien

Per il regista dunque, un altro film di riflessione e di analisi a 360 gradi che ha al centro del mirino il mondo dello spettacolo e quello delle sue brutali verità. Un’opera che viene immediatamente dopo Eva contro Eva, con la quale condivide lo stesso impianto accusatorio oltre alla stessa veemenza e cattiveria (se là era il teatro, questa volta è il cinemaad essere messo indiscussione) anche se non riesce ad eguagliarne la perfetta costruzione (ma ci arriva comunque molto vicino).

Sofisticato e complesso, Mankiewicz (sempre particolarmente attratto da storie contorte e controverse) è infatti anche qui un autore di rara finezza psicologica che riesce sempre a stupire senza mai cascare in facili e lambiccati barocchismi: nel suo cinema la trama a un certo punto si mette sempre un po’ in disparte per lasciare più ampio spazio al narratore che scruta ogni personaggio e il suo passato con totale libertà introspettiva, così che qualunque sia la storia che si sta raccontando, si respira un’aria di assoluta verità filtrata però attraverso la finzione cinematografica.

 

Humphrey Bogart, Rossano Brazzi, Ava Gardner

La contessa scalza (1954): Humphrey Bogart, Rossano Brazzi, Ava Gardner

 

Degli attori ho già detto. Mi  rimane da citare ancora almeno la splendida fotografia  di Jack Cardiff  davvero degna di figurare accanto a quella dei suoi capolavori realizzati per il duo Pressburger/Powell (Scala al paradiso, Scarpette rosse e soprattutto Narciso nero) e i magnifici costumi un po’ barocchi creati per la Gardner dall’atelier delle Sorelle Fontana.

 

 

Sinossi (attenzione: spoiler)

La storia in sintesi, è quella di un’artista  bellissima e delle sue vicissitudini alla costante ricerca della felicità.

Entrando nel dettaglio, come già detto prima, il film inizia nel cimitero di Rapallo, dove si celebrano i funerali della contessa Maria Vargas in Torlato-Favrini già  venerata diva cinematografica.

Lì,  alcune voci  di persone presenti (il regista, l’agente pubblicitario e il marito, oltre a quella postuma della stessa Maria), ne rievocano la vita: scoperta a Madrid mentre balla scalza in un locale dal regista Harry Dawes, in breve tempo raggiungerà il successo a Hollywood, ma non l’appagamento. Non essendo mai stata amata nemmeno da bambina, rimane infatti indifferente persino alla raggiunta notorietà lasciandosi sfruttare  da produttori e registi.

Durante un viaggio in Italia incontra nuovamente il suo amico regista  che si trova a Sanremo come sceneggiatore di un film, e a lui confida le sue cocenti delusioni. Deve però tornare precipitosamente in Spagna perché il padre ha ucciso la madre e solo la sua testimonianza riuscirà a salvarlo dalla condanna.

Passa di amore in amore finché incontra il conte italiano Vincenzo Torlato-Favrini che – affascinato dalla sua bellezza – la sottrae a una vita che non la gratifica  e le offre ospitalità nel suo castello di Rapallo. Lì la corteggia con tenera galanteria, ed infine le chiede di sposarlo. Maria in preda all’euforia, corre tutta eccitata da Harry e lo invita al suo matrimonio. L’uomo, a cui il conte non piace, accetta l’invito solo per avere l’occasione per parlare col  Favrini (e avrà in effetti un colloquio con lui per sollecitarlo a non far soffrire Maria fornendole impossibili illusioni poiché dietro  la sua ostentata sicurezza, si nasconde una donna innocente e infelice che non è giusto far soffrire ancora.

I due comunque si sposano e si trasferiscono definitivamente nella villa di Vincenzo dove è fortemente osteggiata da sua sorella. Maria è felice: davvero  innamorata del conte,  nel suo cuore di bambina pensa di vivere dentro a una favola che verrà però infranta  la sera stessa delle nozze (gettandola in una forte prostrazione) quando il marito le svela la sua impotenza mostrandole un certificato che ne attesta  la causa in una ferita di guerra al basso ventre.

Desiderosa comunque di fare al marito il dono dell’agognato erede che possa proseguire una  dinastia nobiliare altrimenti in estinzione, non si arrende e si concede all’autista ed essere così fecondata, ma il conte scopre il tradimento e  pazzo di gelosia, li uccide entrambi, del tutto ignaro che lei è già incinta.

Il film si conclude con la tumulazione di Maria sotto la pioggia nel cimitero di Rapallo (la ripresa conclusiva della sequenza dell’inizio) mentre il conte viene arrestato dai carabinieri.

 

 

[1] Rodolfo Valentino, il divo per antonomasia del periodo del muto anche lui scoperto da Hollywood per le sue doti di ballerino,  ha affascinato l’universo femminile per la sua eccezionale bellezza nonostante la sua omosessualità non dichiarata e la definizione che gli fu affibbiata (piumino per cipria rosa ) da un anonimo cronista del Chicago Herald Exsaminer che lo accusava di essere un dandy effeminato, corruttore dei costumi americani.

Per saperne di più, cliccare il link http://www.giovannidallorto.com/biografie/valentino/valentino.html

 

[2] Quello che accadde al funerale di Rodolfo Valentino, il tragico delirio di quei giorni, è raccontato magistralmente da Dos Passos nell’episodio “Adagio Dancer” in Una manciata di quattrini (terzo volume della sua cosiddetta “Trilogia USA” che comprende anche Quarantaduesimo parallelo e 1919).

 

[3] Il film deve infatti molto a Citzen Kane soprattutto per la struttura a mosaico che offre vari punti di vista su un personaggio per affermare  amaramente l’imperscrutabilità dell’uomo. Come in Welles poi si parte dalla fine senza sapere ancora nulla della storia  per ritornare al termine della pellicola proprio nel luogo dell’inizio dopo aver scoperto la scottante verità che getta nuova luce sull’intera narrazione.

 

[4] Questa scena è una delle più straordinarie di tutta la pellicola proprio per come è costruita perché il corpo della Gardner che balla e si dimena non viene mai ripreso a figura intera (ci si sofferma solo su alcuni particolari,  come quello delle mani a inizio inquadratura). La  genialità sta dunque tutta nel fatto che il regista ci fa percepire la sinuosa, selvaggia e ammaliante bellezza della danza attraverso gli sguardi eccitati degli astanti,  si riflette nei loro occhi avidi di desiderio, ed è come e se anche lo spettatore fosse lì in quel locale ad osservare da vicino annichilito da tanta bellezza e forsennato, erotico furore. 

 

Ava Gardner

La contessa scalza (1954): Ava Gardner

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