Regia di Keisuke Kinoshita vedi scheda film
Inutile, misera, sdentata, su per il ripido pendio sulle spalle del figlio Tatsuhei (Teiji Takahashi), l'anziana Orin (Kinuyo Tanaka), deve scalare una montagna per andare in contro alla morte; poco importa che in realtà nonostante i 70 anni ella sia ancora l'elemento più produttivo della famiglia, la tradizione secolare impone il sacrificio degli anziani per non pesare sulla famiglia e permettere così una suddivisione del cibo più abbondante per i rimanenti membri del nucleo parentale, in modo da affrontare con più successo le frequenti carestie che spesso avvengono.
Più l'anziana Orin sale in alto, più il viaggio si fa faticoso, più il paesaggio intorno diviene pietroso e scarno, mentre la neve, che gelata incontrerà sulla vetta, nell’estrema stanza aperta al cielo ora maggiormente vicino e livido, e che già in prossimità comincia a cadere, a cancellare le impronte, è assieme il dolore e il pudore di questo gesto, l’accettazione e il pianto dignitoso; gli ultimi metri, gli ultimi istanti, dovrà trascorrerli totalmente sola, piccola anziana ricoperta poco a poco da una coltre di neve, elemento auspicato e benedetto da Orin, poichè oltre a non farla soffrire troppo nell'agonia del trapasso, l'accompagnerà in modo meno doloroso nell'aldilà, dimostrandosi l'ennesimo personaggio femminile di stoica tempra interpretato in modo sopraffino da Kinuyo Tanaka, meglio conosciuta per i suoi film con Mizoguchi.
Questa grande descrizione metaforica basta a rendere la "Leggenda di Narayama" di Keisuke Kinoshita un capolavoro immane della storia del cinema, un elogio della vecchiaia innanzi alle avversità dell'esistenza ed un'invettiva contro una tradizione percepita come barbara e disumana, innanzi alla quale ci si deve piegare perchè così si deve, pur maledicendo il peso millenario di tale consuetudine che non guarda in faccia a nessuno, eppure innanzi a quella distesa spettrale di scheletri, si celano una miriade di storie di singoli esseri umani che stoicamente hanno accettato di farsi da parte, secondo i canoni della filosofia stoica; come in quel momento intensissimo in cui la donna si rompe i denti; zenit dell' espressione dell’essere umano che sentendo la propria inutilità alle soglie della fine, si spoglia di tutto; e si toglie di torno dalla famiglia, dalla società, dalla natura, acconsentendo senza lamento alla legge spietata delle tradizioni e dell’esistenza.
Keisuke Kinoshita arricchisce il suo racconto di suggestioni cromatiche e teatrali, che fungono quasi da una lunga preparazione spirituale a quell’ultima scalata, struggente e penosa, in cui il film si prosciuga e diventa bellissimo.
Ma prima dell'ascesa sul Narayama, viaggio che dovrà compiere insieme al figlio Tatsuhei, il quale invece è fermamente contrario a tale macabra usanza, giungendo anche a violare una delle tre regole sacre alla base di tale usanza, il tornare indietro improvvisamente per poi essere dolcemente invitato ad andare via dalla madre Orin con un solo gesto della sua mano. Il cinema si fonde al teatro, Kinoshita usa la tradizione del teatro kabuki abbondantemente nella costruzione della messa in scena filmica, cominciando dall'introduzione di una voce narrante che tramite l'accompagnamento con le dolci note dello Shimasen, permette di penetrare nello stato d'animo dei personaggi, ergendosi anche a supremo cantore di un destino ineluttabile a cui volenti o nolenti tutti i personaggi devono sottostare a prescindere dalla loro effettiva volontà, se Orin vi si presta di buon grado, un altro anziano preferisce essere umiliato dai suoi familiari piuttosto che morire di fame e stenti sul Narayama.
Non celando l'evidente impianto teatrale, dovuto anche all'evidente stilizzazione da palcoscenico, per via dello scenografie palesemente artificiose con tanto di cambi di scena tramite il sipario e buio immediato, Kinoshita gira una pellicola per assurdo sperimentale pur nella sua più profonda aderenza alla classicità, la quale viene accentuata fino all'estremo nelle costruzione e nei colori pittorici ed artificiosi, simbolo di un cinema come quello nipponico che non ha mai cercato nella tavolozza cromatica un realismo scenico, ma solo una modalità espressiva che fungesse da contrappunto visivo al travaglio psicologico dei personaggi, senza mai scadere nell'estetismo fine a sè stesso, che tanto mostra per poi celare nulla dietro tale opulenza visiva.
Una pellicola intrisa di giapponesità al 200%, molto ostile per lo spettatore odierno (non poche stroncature vi furono a Venezia e da parte di certa critica americana dell'epoca), eppure coerente contro la requisitoria del regista contro una tradizione percepita come barbara e purtroppo dimenticata perdendosi nella leggenda, come vuole d'altronde il finale in bianco e nero con un cartello che annuncia la fermata di un treno alla stazione di "Obasute" (l'abbandono degli anziani), un tetro epitaffio di una consuetudine perdutasi nella memoria di un passato remoto.
Film aggiunto alla playlist dei capolavori : //www.filmtv.it/playlist/703149/capolavori-di-una-vita-al-cinema-tracce-per-una-cineteca-for/#rfr:user-96297
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