Regia di Kenji Mizoguchi vedi scheda film
Tratto del romanzo "La vita di una mondana" di Saikaku Ihara, il film di Mizoguchi è un'opera davvero straordinaria che offre uno sguardo privo di misericordia (e proprio per questo molto efficace) sulla cruda, dura realtà del rigido mondo feudale giapponese del 17° secolo.
Il film si propone anche come una veemente denuncia della emarginata condizione delle donne nella società patriarcale di quel paese. Intende però essere al tempo stesso anche una commossa, toccante apologia finalizzata ad esaltare l’immensa, indomabile grandezza dell'animo femminile.
Come ho già detto, la storia è ambientata nel Giappone del 17° secolo. All’inizio del film vediamo un’anziana prostituta (O-Haru appunto) che si aggira di notte e senza troppa fortuna, per le strade della città in cerca di clienti. Scoppia un temporale e la donna trova riparo sotto le volte di un antico tempio. Lì, nella fioca luce riverberata dal fuoco presso cui si scaldano altri derelitti come lei, riesce a percepire il fascino e il mistero delle innumerevoli statue conservate in quel luogo che il tremolare della fiamma le rivela. Non è solo la bellezza di quelle sculture ad attrarla così prepotentemente perché in una di quelle statue le sembra di ritrovare le sembianze di un suo antico (ed anche unico) amore. Questa inaspettata visione, la costringe a ritornare molto indietro nel tempo e a ripercorrere col ricordo tutti gli infausti avvenimenti che hanno così fortemente caratterizzato la sua vita.
Il flashback che apre questa magistrale prova registica (uno dei più vertiginosi e poetici di tutta la storia del cinema), ci introduce dunque nel passato della donna che ci viene rivelato a partire dalla vicenda d’amore che molti anni prima (nel 1658) l’ha legata al servo Katsunosuke in una relazione d’amore clandestino che, una volta scoperta, costerà a O-Haru l’esilio forzato. Per un caso che all’inizio potrebbe apparire fortunato, la donna in esilio, viene prescelta dal potente signore Matsudaira per essere la madre del suo futuro erede, ma niente più di questo: infatti, non appena partorito il bambino, O-Haru è immediatamente cacciata dalla casa, e le viene di conseguenza negata la possibilità non solo di crescere il proprio figlio, ma anche semplicemente di vederlo. Soltanto molti anni dopo, ormai anziana, verrà finalmente riconvocata alla corte di Matsudaira. Le si riaccende così la speranza di poter finalmente riabbracciare il suo ormai cresciuto bambino, ma nemmeno questa possibilità le sarà concessa.
Il film che ne esce fuori, è dunque una solida opera poetica e complessa, sorretta da una struttura drammaturgica che avvince lo spettatore lasciandolo quasi senza respiro a conferma della meritata fama di un Autore considerato dalla critica – insieme a Ozu e Kurosawa -uno dei più influenti, carismatici e capaci registi giapponesi del ‘900.
La ricostruzione che Mizoguchi ci propone degli ambienti e dei costumi di quei tempi tanto lontani, è elegante, attendibile e convincente, così come lo stile (inconfondibile) del suo cinema che accompagna la vicenda della protagonista con i suoi abituali, inimitabili e strepitosi piani sequenza.
Di particolare spessore formale ed espressivo, la lunga sequenza (che da sola vale intero film) in cui O-Haru, inseguita dai servi che la braccano, cerca di vedere (e di farsi notare) dal figlio che, incurante di lei, passa invece trionfalmente indifferente nei viali del giardino della sua sontuosa dimora.
Sintetizzando dunque, O-Haru è la tipica donna del cinema del regista: la troviamo infatti in partenza rassegnata a vivere passivamente una vita di rinunce, conscia com'è di essere considerata semplicemente e soltanto come un oggetto da utilizzare a piacimento per compiacere e soddisfare un prevaricante desiderio di stampo maschilista.
Una donna però che nel corso degli eventi, si trasforma a poco a poco in un personaggio tragico e inquietante, toccata ma mai del tutto domata dai drammatici eventi della vita che si muovono intorno a lei e dai quali è inesorabilmente esclusa.
Strepitosa la protagonista (Kinuyo Tanaka) il cui volto è volutamente ripreso (e riproposto) dal regista, sempre uguale sia nella giovinezza che nella vecchiaia.
Leone d’argento a Venezia nel 1952, il film avrebbe però potuto benissimo essere insignito del Leone d’oro. Il successo (di pubblico e di critica) fu comunque clamoroso (altri invidiabili tempi quelli in cui un premio riusciva a cambiare la sorte anche commerciale di un’opera) e contribuì davvero in maniera determinante a fare da apripista alla scoperta in Occidente del cinema giapponese classico ancora in buona parte misconosciuto.
Non ci sono commenti.
Ultimi commenti Segui questa conversazione
Commenta