Regia di Tobe Hooper vedi scheda film
Non usate quel cervello!
Avvertenza: in certi frangenti mi ritrovo a "dover" esprimere, con forse un sovrappiù di sarcasmo, il mio più supremo sdegno nonché sconcerto quando posto di fronte ad opere "gentilmente" prodotte e confezionate con fecale materia prima dal temibilissimo CARI (che altro non è che il famigerato Consorzio Agro-filmico Rettale e Infingardo). E questo è uno di quei casi. Perciò, siete avvisati, potreste rimanerci male e infastidirvi, qualora facciate viceversa parte della schiera maggioritaria degli estimatori. Perdonatemi, ma proprio non ho saputo trattenermi.
Ordunque, orbene, bando ai preamboli e sia dato fiato alle trombe (e ai tromboni). Che dire in via preliminare di quest’“opera”? Bah, che dà l’idea d’essere invecchiata piuttosto malamente e che, vista – come inevitabilmente finisce per esser vista da chiunque sappia qualcosina di cinema – con alle spalle tutto il preventivo gravoso portato di turbinanti encomi, al tirar delle somme si rivela alquanto deludente (si dica pure una delusione al quadrato, cocente o anzi ancor meglio urticante).
E non solo in virtù del fatto che difficilmente riesce ad ingenerare reale ed effettiva inquietudine (qualcuno forse potrebbe arrivare a sostenere ciò sia da imputarsi ai decenni nel frattempo trascorsi che hanno un po’ minato l’efficacia del meccanismo, ma questa teoria sa di pseudo-spiegazione atta unicamente a tentare di salvare in extremis la pochezza del risultato), ma soprattutto perché si dimostra essere quanto di più banale, insulso, innocuo, vacuo e prolisso abbia mai saputo “regalare” l’horror di sedicente qualità.
"Ouch, el dolor..."
E non è che ci voglia tutto ‘sto tempo per rendersene conto, sia chiaro: bastano i primi 25-30 minuti, tutto qui. Subito si presenta infatti una prima mezz’ora (su poco più di un’ora e venti di durata complessiva, notare), terribilmente arrancante, dedicata in esclusiva al viaggio in minivan e farcita di chiacchiere inutili e d’interminabile parentesi coll’autostoppista “degenerato”… cosicché quando infine giunge al termine sembrano passate minimo già due ore. Ci sarà sicuramente chi avrà giustificato la cosa col pretesto dell’approfondimento dei caratteri, della definizione dell’atmosfera ecc. Panzane. Quegli interminabili minuti servono all’unico lapalissiano scopo di tirarla lunga sì da raggiungere la durata d’un lungometraggio. Punto.
Ma anche quando infine si palesa la casa le cose non migliorano granché, visto che si è costretti a sopportare un altro quarto d’ora buono di scarpinate inutili, sghignazzamenti beoti, trascinamenti futili di carrozzine da parte dei protagonisti. Allegria. Ed ecco ch’è solo dopo tutto questo che finalmente – finalmente – s’arriva al momento clou (si fa per dire) e ha inizio il vero e proprio film (di nuovo, si fa per dire).
Ma è possibile vederlo e accorgersene, naturalmente, solo a patto che si sia riusciti a mantenere le palpebre ben aperte sino a quell'altezza (cosa ardua e dura). Va beh che poi il grande e “maraviglioso” film si riduce ad una stanca sequela di squartamenti dietro ad altri squartamenti, inseguimenti appresso ad altri inseguimenti, sino all’insulsa conclusione finale che si afferma quasi come una liberazione dall'agonia (a proposito, perché diamine il camionista abbandona il tir e fugge a piedi? Misteri della fede…). Prima però ci si è dovuti sorbire, in aggiunta, un buono numero di strilli perforanti gl’innocenti timpani (grazie tante ai tecnici del suono…).
E così, tra un AAAAHHHHHHH e l’altro, almeno in due differenti occasioni ci si ritrova a vagare con la mente e pensare a quanto – ma giusto quanto – risulti oltremodo conveniente ai fini della “trama” che la dulce signorina in questione possegga siffatte doti canore, considerato che si fa puntualmente ritrovare dal maniaco assetato di sangue. Embè, hai voglia, che sennò ‘ndo finirebbe tutta quella seconda parte, si vorrebbe orrorifica?
Soavi cenette in famiglia...
In ogni caso, per dirla in una frase: se un paio di inquadrature d’impatto indubbiamente vi sono, pur tuttavia il film nel suo complesso, a modestissimo avviso di chi scrive, si dimostra incapace di costruire quella “malsana, psicotica e allucinata” atmosfera tanto decantata da molti recensori. E quindi, in assenza della suddetta, cosa rimane? Appunto, un’opera stanca, piatta, moscia e protratta oltre ogni limite d’umana sopportazione, recitata maluccio, scritta peggio e con un sonoro da denuncia penale.
E’ vero, è stata letteralmente prodotta con quattro soldi, ma tant’è: non resiste né alla prova del tempo né tantomeno al confronto con altri – a differenza sua, eccellenti – horror dell’epoca, come ad esempio il carpenteriano Halloween. A quest’ultimo proposito, avrà pure – questo “Massacro con la motosega texano” – dato in certo qual modo avvio allo slasher (insieme al citato film del ‘78) ma per l’appunto qualunque paragone con Carpenter è semplicemente improponibile. Momento sciocchezzuola: se Halloween è il Pertini del suo campo, Non aprite quella porta è Giggino Di Maietto. Ci prova, ma proprio nun ce la fa.
Del resto, per quel che concerne Hooper, che non si trattasse propriamente del più fervido, brillante e creativo dei registi è poi intervenuta a dimostrarlo pressoché tutta la sua successiva carriera. Tuttavia, i segni della più esasperata inconsistenza sono già tutti senza dubbio in questo esordio, ovvero uno dei più brutti e al contempo stranamente acclamati horror di sempre. Che, a dispetto di ciò, altrettanto curiosamente, ha dato avvio ad un franchise, il quale in tempi non sospetti ha finito per incontrare – piuttosto coerentemente – Michael Bay & Co. A mo’ d’epigrafe si potrebbe aggiungere un “non aprite quel portafoglio”: tutti soldi risparmiati…
"The horror, the horror..."
"No, ma dai oh, son ragazzi..."
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