Regia di Tobe Hooper vedi scheda film
Il "maestro dell'horror" Tobe Hooper è qui al suo massimo; mai più sarà in grado di sfiorare questo risultato. Un punto di riferimento new horror per un film che "ha fatto scuola".
Un gruppo di cinque amici raggiunge, con un furgoncino, una isolata zona del Texas. Tra costoro sono presenti i fratelli Sally (Marilyn Burns) e Franklin che vogliono raggiungere il casolare del nonno. Nel tragitto offrono un passaggio ad un personaggio inquietante che non esita a ferirsi la mano con un coltello. Se ne liberano in fretta ma subentra un altro problema: la benzina scarseggia. Raggiungono una stazione di servizio ma priva di rifornimento finché non notano delle cisterne private. Due del gruppo muovono in quella direzione.
Tobe Hooper, con l'aiuto di Kim Henkel, dopo la parentesi di Eggshells (1969) debutta veramente con un lungometraggio dai contenuti estremamente innovativi. Si tratta di un horror ma non è certo di maniera, non tratta di temporali, castelli e mostri frutto di folli mad doctor. Né affronta il tema gotico e men che meno quello (già più moderno) degli zombi. Piuttosto guarda con lucido cinismo ad un personaggio terrificante che già in precedenza aveva ispirato Robert Bloch e Hitchcock (Psycho): Ed Gain, un killer necrofilo che si è macchiato di pochi, ma impressionanti, delitti. Soggiogato dalla madre e indirizzato con odio verso l'altro sesso, una volta rimasto solo Ed sposta la sua attenzione sui cadaveri con i quali -quando non utilizza i corpi a fini alimentari- si sbizzarisce a creare mostruosi artefatti (portalampade, tessuti e maschere facciali). Purtroppo Ed va oltre il vilipendio e si spinge ad uccidere per ottenere "materia più fresca". Il tema è talmente orribile -ma di sicuro effetto sul pubblico- che tornerà ad influenzare un altro titolo di successo (Il silenzio degli innocenti).
Tornando al film di Hooper, un prodotto low budget estremamente riuscito, è bene mettere in rilievo che la storia vera costituisce un pretesto per dare al regista il destro di sprofondare nel clima folle e delirante che aleggia all'interno della famiglia di macellai emarginati, evidente metafora di una classe sociale estromessa (mediante isolamento) dal pubblico interesse e costretta alla miseria dall'inevitabile sviluppo industriale (le bestie del macello uccise con la sparachiodi e non più con un martello). Hooper sembra quasi giustificare lo stato marginale dei reietti, sorta di residui dimenticati dalla società civile. La tendenza progressista (presente anche nella messa in campo di valori reazionari, tipo quello familiare, messi alla berlina) di Hooper è però flebile e lascia presto campo all'orrore più epidermico: per il gruppo di assassini (conservano la nonna -unica figura femminile- mummificata, altro rimando a Psycho) uomini e bestie pari sono, e lo sta a dimostrare l'allucinato, spiazzante e raggelante arredamento nel quale si muove il personaggio più inquietante (Leatherface), dove paralumi, sedie, lampadari e altre "opere d'arte" appaiono ai nostri occhi nel loro più inaccettabile composto, ovvero un insieme di ossa ora umane, ora animali. Scene da sudore freddo per lo spettatore, che già terrorizzato dalla profonda immedesimazione di Gunnar Hansen (e delle sue maschere facciali variabili a seconda dell'umore), stenta a credere ai proprio occhi. Hooper, con un colpo di genio, decide di sviluppare la storia con unità di tempo (i fatti si susseguono in progressione reale) e luogo (tutto avviene nell'assolata e isolata località texana) preannunciando (l'incipit con riferimento a fatti realmente accaduti e susseguente piano sequenza sui cadaveri profanati al cimitero) che il film non risparmia nulla in fatto di brutale realismo. Questo modo di narrare, ovvero in tempo reale, permette di contenere i costi e incita la troupe a trovare alternative estetiche ai più banali effetti di sangue. Perché Non aprite quella porta solletica l'immaginazione dello spettatore senza mai affondare lo sguardo nella più volgare violenza. Infatti di sangue, nel film, ne scorre pochissimo (paradossalmente sarà Leatherface a mostrarcelo nel finale, ferendosi con la motosega) ma il frenetico montaggio (da manuale le diverse inquadrature dell'occhio allucinato di Sally) accostato ad una maestosa (per quanto delirante) scenografia, conferisce allo spettatore la sensazione di avere assistito a fatti impensabili. Hooper non perde un solo secondo per costruire, progressivamente, un climax di tensione culminante nell'allucinato inseguimento notturno di Leatherface alla scream queen (tra l'altro questa è forse la prima vera "final girl", modello che poi verrà ripreso in una infinita quantità di pellicole slasher). Un armadillo morto, nel bel mezzo di una strada isolata (e battuta da un Sole inclemente), inquietanti notizie divulgate dalla locale stazione radio (il crollo di un palazzo e conseguenti decine di vittime, un brutale omicidio passionale, una coppia che maltratta la piccola figlia), l'oroscopo foriero di brutti presagi, un autostoppista che brucia la foto appena scattata: Hooper dispensa indizi, elementi, suggestioni che sembrano anticipare un destino, quello inevitabile, che attende lo sperduto gruppo di amici. Le riprese a distanza (spesso in lontananza) rendono l'idea del furgoncino come metonimia dell'armadillo, anch'esso quindi schiacciato dalla imponente forza della natura (una strada apparentemente infinita, un cielo opprimente). Perché, ad onor del vero, fa paura questo Non aprite quella porta. Fa paura per le implicazioni che sottende, ovvero quelle che chiunque può trovarsi, nell'immediata frazione di pochi minuti, a causa di una "wrong turn" (qui la necessità di fare rifornimento devia i ragazzi dal loro tragitto) all'interno di un incubo dalle più tragiche e dolorose conseguenze. Fa paura perché la "famiglia" di Leatherface è frutto di un concetto di libertà a lungo inseguito, praticato e raggiunto dalle più significative Nazioni "democratiche". Fa paura perché apparenta l'essere umano a creature considerate inferiori e collocate nella catena alimentare del più forte. Fa paura perché i folli agiscono non per fare del male, non per sadismo, ma per un innato istinto di conservazione, quello che la natura stessa suggerisce, quello della selezione naturale, dell'egoismo e quindi -per citare Hobbes- "Homo homini lupus, homo homini deus."
Seguiti e rifacimenti
Il film ha avuto tre diversi seguiti dei quali solo il secondo diretto nuovamente da Hooper. Nonostante un budget più consistente, nel secondo capitolo il regista calca la mano sul registro grottesco confinando il film ad una qualità mediocre e sminuendo anche l'ottimo lavoro di Tom Savini agli effetti speciali. In anni di remake, reboot, prequel, sequel (testimonianza della crisi creativa degli autori) Marcus Nispel realizza un eccezionale rifacimento (2003) dietro supporto di Michael Bay (a capo della Platinum Dunes) e grazie alla strepitosa interpretazione di R. Lee Ermey. Rifacimento tanto riuscito che il mito di Non aprite quella porta rinasce: seguiranno infatti un prequel e altri due seguiti (uno girato in 3d e uno di recente uscita nelle sale), tutti particolarmente curati e di certo effetto. Mentre non si contano i film che, più o meno apertamente, si sviluppano sulla falsariga del modello di Hooper.
Tobe Hooper: tra alti e bassi
Nato ad Austin (Texas) nel lontano 1943, Tobe Hooper collabora come capo operatore e montatore per la televisione americana; realizza spot e documentari per il ministero dell'Educazione. La notorietà arriva, però, con un film che traccia, nel titolo, location e dinamica degli omicidi, ispirati (molto liberamente) ad una tragica figura di killer realmente esistita (Ed Gein). Nel 1969, con Eggshell, Hooper aveva già tentato, inutilmente, di proporsi nel ruolo di cineasta. Texas chainsaw massacre consegue svariati riconoscimenti: tra tutti il primo premio al Festival di Avoriaz, 1976; a seguire la Palma d'oro al Festival di Anvers. Non male andò pure l'esito al box office, poiché nei primi due mesi, incassò cinque milioni di dollari, solo negli Stati Uniti. In seguito il regista, titolare, assieme a Wes Craven e George A. Romero, di una nuova concezione del cinema horror, ovvero più viscerale e stilisticamente feroce, alterna una serie di pellicole con risultati discontinui e quasi antitetici. Si riconferma, parzialmente, grazie a Quel motel vicino alla palude (1977) mentre da lì in poi i film assumono uno spessore spesso limitrofo al ridicolo, eccezion fatta per Poltergeist (mega produzione dietro alla quale sta "celato" pure Steven Spielberg) e, parzialmente, Texas chainsaw massacre 2 (1986). Pure in anni recenti, dopo lungo periodo di assenza dietro una M.d.P., Hooper conferma questo dualismo artistico, portando a conclusione un film mediocre (Mortuary) ed uno più riuscito (Toolbox Murders), mentre per i Masters of Horror gira due modesti e poco incisivi capitoli (Dance of the dead e The damned thing).
Diverse sono le edizioni in Dvd di Non aprite quella porta. Tra le migliori quella della Stormovie, che propone una elegante slipcase cartonata contente due dischi. Ottima la qualità video con film proposto in un buon formato panoramico e con discreta traccia audio (inesistente però il 5.1 anche se opzionabile dal menù di impostazione). Nel secondo disco una valanga di contenuti speciali dove, tra scene eliminate, scene alternative e interviste, risalta un documentario di circa un'ora sulla realizzazione del film.
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