Regia di Tobe Hooper vedi scheda film
Con questo film inizia in seconda battuta il new horror. Già il George A. Romero de “The Night of the Living Dead” aveva utilizzato la forza sovversiva dell’horror per rappresentare i mali della società. Ma mentre lo faceva ancora con un occhio rispettoso al cinema classico, rinvigorendo l’archetipo degli zombie che in Romero diventano morti viventi di cui ne è il padre assoluto, Tobe Hooper apporta uno sguardo da documentarista che cozza con il tema trattato tanto da spiazzare sia gli affiliati del genere che la critica e il pubblico in generale. La potenza di questo suo secondo lungometraggio sta nell’aver giocato al contrasto con elementi interni ed esterni al genere, e con una prima dichiarazione di poetica rintracciabile nella figurazione carnevalesca dei personaggi, nella commistione tra il sonoro e la colonna sonora, nella rappresentazione pornografica della violenza (che non è il gore di H. G. Lewis), nel black humor, nell’uso intellettuale del montaggio, nello stemperamento dell’horror nel comico e del comico nell’horror, e chiaramente nel dichiarato affetto per i freaks.
Con i titoli di testa il regista ci trasporta con violenza all’interno di un fatto di cronaca da cui non possiamo scappare con un “E’ tutto finto!”, ma siamo obbligati a scendere fino negli abissi della follia anche contro il nostro volere. Poi arriva la prima sequenza che introduce i protagonisti in viaggio sul loro furgoncino. La bravura di Hooper sta nell’amplificare anche gli elementi narrativi più banali, come la pisciata di Franklin. Questa è sviluppata in un crescendo di tensione mutuato da un montaggio e da inquadrature anti-naturalistiche. Siamo portati a credere che accadrà qualcosa di terribile. Invece, causa il colpo d’aria di un camion, Franklin e la sua sedia a rotelle rotolano nella piccola discesa del prato. Si sorride, è vero, ma è una risata strana, alienata da un’atmosfera ambigua, sospesa tra la slapstick comedy e l’horror. Infine ci si getta di testa nel perturbante grazie ad uno sviluppo ad imbuto, per il quale tutti i ragazzi protagonisti prima o poi dovranno passare da casa Sawyer (anche se il cognome arriva solo nel secondo capitolo dell’86). Da qui in avanti il film esprime tutta la sua sovversione, e preannuncia una stagione horror indimenticabile, che abbandona le icone horror del passato, come Dracula, Frankenstein e l’Uomo Lupo, per trattare un orrore nuovo (new horror appunto), generato dai mali interni alla società, e non più da quelli esterni, amplificati poi anche dalla Sci-Fi anni ’50 con gli alieni. L’orrore non arriva più da un lugubre castello pieno di bare, ma da una casa sperduta nel profondo Texas del sud. L’orrore esce dal nucleo famigliare, uno dei principali valori dell’America, e ne diventa il boia senza misure. La fa a pezzi, ma non per demonizzare la famiglia in sé (magari tutti ne avessimo una sana in cui rifugiarci sempre), ma bensì per distruggere quel muro perbenista con il quale si paventa la morale americana. Dietro quel muro c’è il marcio di una società solo consumista (perché consumista di per sé non è un male, ma quando diventa l’unico bisogno di un uomo alloradiventa male), che si divora da sola e George Romero ben lo aveva urlato con i suoi morti viventi. Il cinema horror, dal ’68 romeriano in avanti, è sinonimo di ribellione. Anche se questa carica sovversiva e disturbatrice della cultura dominante è rintracciabile anche negli horror Universal e in quelli della Hammer, è con il new horror che ne abbiamo una vera e propria codificazione. L’intrusione del mostruoso nel quotidiano, e addirittura nei luoghi inviolabili della morale perbenista americana, è qui rappresentata con una potenza visiva e un’alienazione visionaria, dettata dalla follia della grammmatica del linguaggio cinematografico, che diventa antologia e campionario di tutta una nuova estetica e poetica cinematografiche. Più avanti nasceranno nuove icone horror, e Leatherface è la prima della famiglia se escludiamo i morti viventi di Romero per non essere riconducibili ad un unico individuo. Seguiranno Michael Myers, Jason Voorhees, Freddy Kruger, Candyman, Ghost-Face, The Creeper, Hellraiser, Pazuzo, e pochi altri ancora che hanno avuto la fortuna di sfondare l’immaginario collettivo.
Così, la degenerazione del nucleo famigliare, specificamente a “The Texas Chainsaw Massacre”, va abbinata ad una risposta arrabbiata al crescente consumismo, di cui la famiglia Sawyer ne è una rappresentazione barocca. A loro serve la carne e guai a chi ne metterebbe a rischio l’attività. La morale e l’etica famigliare poggiano su basi non poi tanto diverse di una buona famiglia borghese. Ciò che li differenzia è che non hanno contestualizzato, non hanno scelto, no hanno dialogato con il Sistema. Ne sono stati travolti senza appello. Se ci avessero dialogato avrebbe individuato in esso il marcio e le ipocrisie. E sarebbero diventati a loro volta degli “arrabbiati”, e forse si sarebbero trovati dall’altra parte della barricata. Ma non è andata così. Ai Sawyer, come ai tanti nuclei famigliari seminati nel deserto texano (che può essere tranquillamente un spazio dell’anima più che geografico), non è stata data questa opportunità di dialogo. Sono cresciuti pisciandosi nei pantaloni. Convivono con la loro povertà umana, che non si sono scelti, e diventano la nemesi violenta di chi cerca di abbattere quel muro perbenista che copre il marcio del Sistema. Non sono cattivi i Sawyer. Loro esistono perché sono vittime di un Sistema che non funziona, che si dimentica di loro, li sputa e li sotterra. Sono le sue vittima filiali, e come dei figli devoti ad un credo di cui non capiscono nulla diventano il braccio punitivo di tale Sistema. Reprimono le libertà altrui in nome di una conservazione eversiva di cui apprezzano solo i piaceri immediati. Non assaporano il gusto di un elemento eterno. Per loro è tutto “prodotto”, tutto è “carne da macello” come per Romero tutto è “carne morta” perché “gli zombie siamo noi”.
Se accludiamo alla rabbia e alla sovversione estetica e contenutistica di “The Texas Chainsaw Massacre” altri elementi di analisi come la motosega come prolungamento del pene e le varie riflessioni che scaturiscono dal tema del cannibalismo, noteremo come la cifra autoriale di Tobe Hooper non sia inferiore a quella dei più blasonati autori allineati all’accademismo, e individueremo in “The Texas Chainsaw Massacre” un vero e proprio capolavoro del Cinema tout-court.
Non ci sono commenti.
Ultimi commenti Segui questa conversazione
Commenta