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Il treno della notte

Regia di Jerzy Kawalerowicz vedi scheda film

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La recensione su Il treno della notte

di (spopola) 1726792
8 stelle

La fama di Jerzy Kawalerowicz qui da noi in Italia, è soprattutto legata al film Madre Giovanna degli Angeli, (Palma d’argento al Festival di Cannes del 1961, che è poi lo stesso anno, se non vado errato - ma non ho ricontrollato la fonte - in cui fu assegnata quella d’oro all’ancor più “disturbante” – per i tempi - Viridiana, uno dei capolavori assoluti della straordinaria filmografia di un regista eccezionale e fuori da ogni convenzionale schema di perbenismo codificato come Buñuel). Contribuì molto all’esito anche commerciale della pellicola, il prevedibile intervento censorio del solito Vaticano, che lanciò strali e minacce di scomuniche proprio per il tema un po’ “blasfemo” della “possessione diabolica” che veniva trattato (magistralmente, devo dire, non solo per l’accurata messa a fuoco delle psicologie delle suore “invasate”, ma anche per la raffinata impaginazione visiva), ispirandosi ai noti  “fatti di Loudun”, mediati però dal romanzo di Jaroslaw Twaszkiewicz (ma anche con forti richiami a uno dei drammi fondamentali del teatro espressionista come Santa Susanna di August Stramm), che all’incirca dieci anni dopo, saranno per altro all’origine, ma sulla base di un’altra più nota “riscrittura” esplicativa ad opera di Aldous Huxley, del controverso I diavoli di Ken Russell.

Prima di questo excursus in “forte odore di zolfo” (anche se in effetti, rifacendosi a quegli accadimenti lontani, il regista intendeva soprattutto esprimere una non tanto velata protesta metaforizzata contro ogni forma di oscurantismo, come già aveva fatto Arthur Miller con il suo Il crogiulo ispirato a Salem, scritto proprio per stigmatizzare in negativo le malefatte del maccartismo, e denunciarne così le devastanti conseguenze che aveva generato), Kawalerowicz si era però già fatto notare (passando per la Mostra di Venezia, se ben ricordo) per un’altra pregevole pellicola di due anni antecedente, questo Il treno della notte, appunto (anch’esso un prezioso ed intelligente lavoro capace di mettere in luce l’inusuale “stile” del suo autore) ambientato nell’universo chiuso dei vagoni letto di un convoglio in movimento, e con una storia principale (che riguarda l’incontro casuale fra una donna in crisi e un chirurgo reduce da un incidente professionale che ha fortemente turbato la sua coscienza) che si incrocia e si intreccia con quelle più marginali, ma non meno significative, degli altri passeggeri che si trovano ad “abitare” in contemporanea lo stesso microcosmo in viaggio da Varsavia verso le spiagge del Baltico.

Ma Il treno della notte, nonostante il suo impianto che all’apparenza potrebbe sembrare  “polifonico”, non è assolutamente un film corale (o almeno non lo è nella maniera normalizzata imposta dalle convenzioni del genere). Si potrebbe semmai parlare di una serie di “assoli”, che compongono un mosaico uniforme realizzato utilizzando i “monologhi esplicativi” delle coscienze individuali di ciascuno, abilmente montati fra loro (e in parte sovrapposti), poiché tutte le figure, anche quelle appena abbozzate e relegate nella cornice marginale degli eventi, sono ugualmente importanti e “centrali”, disegnate cioè con la stessa premurosa attenzione riservata a coloro che si ritagliano il ruolo preponderante, anche se piuttosto sfumato,  dei protagonisti principali.

Kawalerowicz “pedina” così i suoi personaggi – un articolato campionario di varia umanità – durante quel viaggio notturno (e l’ambiente è quasi unicamente quello unitario degli  scompartimenti un po’ angusti del treno, il che determina un senso fortemente claustrofobico di “compressione emotiva”). Si percepisce in effetti il peso opprimente di una alienante difficoltà a  creare “rapporti” che esprime perfettamente inquietudine e malessere “esistenziale” (e il film, con quel suo mettere in evidenza proprio le inadeguatezze oggettive soprattutto in relazione all’incapacità di “esprimere” amore, approda a una conclusione decisamente pessimista e quasi senza speranza, nel raccontare con “sensibilità e malinconia” il nulla (B. Michalek) in cui finiscono non solo le storie, ma anche i suoi personaggi, come a voler ribadire ciò che Sarte aveva già così chiaramente affermato con il suo pensiero (Porta chiusa),  e cioè  che l’inferno sono gli altri (Guido Fink su un lontano numero di Cinema Nuovo)…

Ma forse poi non è proprio così che stanno le cose, e nemmeno quella concezione filosofica (per quanto allettante) calza davvero a pennello con tutta la realtà che ci viene rappresentata: probabilmente i contatti “realisticamente concreti” di interscambio empatico fra le persone potrebbero offrire una non indifferente ancora di salvezza (ne avvertiamo qua e là le labili tracce), solo che è difficile, non  tanto stabilirli, poiché a volte per brevi momenti si creano le condizioni favorevoli che consentono di comunicare, quanto mantenerli inalterati e costanti non solo nel tempo, ma anche nell’immediato, e allora nemmeno da questi “avvicinamenti” provvisori emerge alla fine qualcosa di positivo, e certamente nessun risultato consolatorio ne esce fuori, al di là di un’effimera e passeggera parentesi liberatoria che allenta un poco le tensioni.

Sulla base di una sceneggiatura scritta in collaborazione con Jerzy Lutowski (ottimi i dialoghi, tenuti su un registro né marcatamente intellettuale, né tantomeno troppo naturalistico),  e supportato da una straordinaria fotografia di Jan Laskowski (non troppo sfumata, ma al tempo stesso nemmeno eccessivamente “cruda”), il regista, aggirandosi con la macchina da presa  fra i vagoni e gli scompartimenti, definisce prima di tutto una netta separazione fra i due “casuali” compagni di viaggio che dividono il ristretto spazio dello scompartimento n° 16 (quel misterioso dottore che porta occhiali con le lenti affumicate, e l’altrettanto enigmatica ragazza bionda, Marta, che lo fronteggia) e il resto del treno, composto dalla  folta schiera dei viaggiatori e degli inservienti che li circonda (l’ex amico della donna, un vecchio avvocato con la sua giovane sposa, il controllore rubacuori e un prete, fra gli altri).

Niente sembra accadere (o che stia veramente accadendo) dunque – per lo meno in apparenza - al di là delle schermaglie che inevitabilmente prendono forma fra occupanti di spazi così ravvicinati (per restare alla storia principale per esempio, dopo una iniziale reciproca indifferenza finalizzata alla volontà di conservare la propria solitaria  riservatezza, i due finiscono lentamente per entrare in una specie di “sintonia” elettiva che diventa fonte di momentanea e vicendevole “accettazione”. Cominciano così  ad aprirsi l’un l’altra, instaurano un dialogo non privo di  allusioni, ma colmo di represse amarezze, che li  invita (e li aiuta) a coordinarsi per opporre, in virtù di questa momentanea “fratellanza”, una accanita resistenza verso i tentativi di approccio “invasivo” che arrivano dall’esterno, a fare, come si suol dire, “muro” (Marta assiste così con glaciale indifferenza alla disperazione un po’ violenta di un giovanotto che ha il solo torto di continuare ad amarla, nonostante tutto; mentre il dottore ignora le dichiarate avances di una signora in cerca di evasione, tanto per citare gli elementi più salienti). Ma le stesse leggi crudeli che separano i due e li distanziano dal resto della comitiva viaggiante, finiscono per prevalere anche fra loro, e alla fine del percorso, dopo le reciproche, sofferte confessioni, e una parentesi vagamente amorosa di avvicinamento, dopo gli accadimenti intermedi, il dottore annuncerà quasi con fare distratto, come se si trattasse di una casualità ininfluente, di essere sposato, lasciando così la donna  (come al solito è l’elemento femminile ad essere non solo il più disponibile, ma anche quello più fragile e coercibile) di nuovo sola. 

Tale evidente egoismo che, come già accennato, si estrinseca sopratutto in una oggettiva, disturbante mancanza più che di comunicazione, di effettivo “contatto” delle anime, non viene comunque stigmatizzato in negativo, né condannato da Kawalerowicz, che ce lo rappresenta semmai come una congenita, incontrovertibile ed immutabile legge di natura. Proprio tenendo conto di questo specifico posizionamento del pensiero che rimane il cardine principale di tutto l’andamento narrativo delle storie, nemmeno gli elementi gialli che a un certo punto si innescano dentro la vicenda, acquisiscono allora un valore davvero determinante (anche se in ogni caso non appaiono mai come un gratuito accorgimento per movimentarne un poco l’atmosfera), pur assumendo il senso di una necessaria cartina di tornasole (che è anche oggettivazione astratta e un po’ metaforizzata) dell’angoscia che grava, protagonista invisibile ma palpabilissima, su tutta la vicenda. Sarà infatti nell’inseguimento e nella cattura di colui che viene ritenuto essere un assassino (e nella sommaria punizione che gli verrà inflitta), che finalmente emergono, affiorano in superficie, allarmanti ed esplicite, tutte le confuse preoccupazioni simboliche che il resto del film nasconde abilmente sotto un tono quasi da commedia, così come si svelano, prendono forma, i peggiori istinti dei passeggeri, prima tenuti a freno dalle convenzioni dell’apparenza (e la sequenza risulta, nella sua ferocia, di per sé bellissima, certamente uno dei momenti “clou” della pellicola).

Ma se quell’alba livida vuol rappresentare il rogo, o meglio l’incinerazione delle passioni e delle ipocrisie notturne, il mattino non porterà a nessuna effettiva purificazione, né laica né mistica, poichè si estrinseca in un finale che, esattamente come quello che Gide voleva dare ai suoi “Faux-monnayeurs", non è una conclusione, ma piuttosto uno «sparpagliarsi», un dilatarsi nel vuoto (Guido Fink), anche se la straordinaria abilità di Kawalerowicz, il suo talento davvero raffinato nel dominare lo stile, riesce alla fine ad evitare di farci toccare davvero il fondo, nonostante la visione in effetti sia totalmente virata al negativo, grazie alla capacità che ha di mantenere il tono, quasi lunare e raggelato delle immagini e delle parole,  ben lontano dalla tragedia, come se si trattasse non di un “dramma”, ma di una commedia, anche se assolutamente priva di quegli accenti di leggerezza che spesso approdano al “disimpegno” consolatorio, senza per questo rinunciare a quel clima di deriva esistenziale alla quale si accennava sopra.

Bellissimo e coinvolgente, il commento musicale ad opera di Andrzej Trzaskowski, sul quale si innestano le suadenti note di cool jazz che sottolineano ed esaltano, come meglio non sarebbe possibile, le sequenze più liricheggianti del percorso narrativo.

I valenti interpreti, coinvolti e coinvolgenti, sono Lucyna Winnicka (Marta) e Leon Niemczyk (Jerzy, il dottore) coadiuvati da una folta schiera di eccellenti comprimari fra i quali si distinguono Teresa Szmigelówna, Roland Glowacki e Zbigniew Cybulski. 

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