Regia di George A. Romero vedi scheda film
Come è fatto l’inferno.
Il terzo capitolo dell’epopea dei morti viventi partorita dalla vivace vena di Romero doveva essere anche quello conclusivo: dopo “Night of the living dead” (1968) e “Dawn of the dead” (1978, incongruamente intitolato “Zombi” dai titolisti italiani), “Day of the dead” doveva chiudere il cerchio sull’argomento. Fortunatamente non sarà così, infatti altri tre capitoli seguiranno fino al conclusivo “Survival of the dead” del 2010.
Se le tematiche d’assedio, comunque (quasi) imprescindibili nel genere, la fanno da padrone anche in questo lavoro, la resa viene rinvigorita con spunti mai banali che amplificano ulteriormente l’idea dietro il progetto iniziale del 1968. La base militare sotterranea quale rappresentazione - asfittica - di una realtà definitivamente perduta, si posizione infatti in una posizione intermedia – istituzionale – tra l’abitazione del capostipite ed il supermercato del sequel, luoghi “comuni” mistificati divenuti indifendibili dalla mortale marea imperante. Alla quale appare arduo resistere.
Distruzione tematica che tocca l’idiozia della retorica militare, dei suoi riti “marziali” concepiti quale protocolli “in nuce” utili a gestire situazioni di emergenza ma in realtà anch’essi veicolo di una degenerazione sociale progressivamente cannibale; e la scienza, portatrice naturale di risposte ma anche (e principalmente) di dubbi e domande irrisolte, non può parimenti opporsi allo sprofondare dei suoi rappresentanti nello sconforto o nell’’insania.
Tematiche ben rappresentate grazie alla precisa sceneggiatura, che nulla lascia al caso (neppure alcuni tocchi di – grottesco e nerissimo – umorismo), alla vera novità sostanziale del film ovvero lo zombie (Babe), non-morto ancora legato alla vita precedente, ed al ritmo progressivamente indiavolato. Anche gli attori utilizzati, quasi tutti perfetti sconosciuti, sono perfettamente integrati nel ricercato stile da b-movie, con l’unica pecca di una colonna sonora anni 80 a volte inopportuna (opera del regista televisivo John Harrison).
Ogni uomo è, alfine, un’isola.
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