Regia di Jean-Luc Godard vedi scheda film
Capolavoro assoluto della Storia del Cinema, film spartiacque, tra i più influenti di sempre. Forse solo Rossellini è stato più pervasivo di Godard nel tracciare le coordinate di mezzo secolo di modernità cinematografica. Ma limitare il valore dell’esordio di Godard a una mera sfilata di innovazioni tecniche (peraltro in gran parte riprese dal cinema muto, da Murnau a Dreyer, ampiamente citati, assieme ad altri, fin da questo primo film) sarebbe riduttivo. Perché se da una parte è vero che “A Bout De Souffle” sancisce il trionfo del montaggio discontinuo, a forza di “jump cut”, dell’alterazione dei tempi filmici (ora spezzettati, per esaltare il vitalismo irrequieto dei personaggi, ora immobilizzati, per sondarne gli animi), di una mdp utilizzata a mo’ di sciabola, di vertiginosi piani-sequenza, di sguardi in macchina ed ulteriori eresie, dall’altra ciò che rende eterna quest’opera è la grande densità e profondità di risvolti tematici. E in questo senso, si deve dare una parte del merito al grande Francois Truffaut, autore di una sceneggiatura che, nonostante possa sembrare farraginosa, lascia stupefatti per originalità, personalità, audacia. Con questo non intendo affatto sminuire l’operato di Godard, anzi: quest’ultimo ha indubbiamente saputo valorizzare, con grande sensibilità e finezza, i nodi cruciali del copione, inventando un’estetica dirompente in grado di esaltare una poetica così fervida. Ecco che quindi “Fino all’Ultimo Respiro” si rivela essere un’intensa riflessione su una grande varietà di temi, tutti basati su di un confronto dialettico. Anzitutto, il rapporto fra realtà e Mito: le vite sbandate o frustrate di outsider metropolitani, contrapposte all’iconografia cinefila. Se nel memorabile controcampo fra la locandina di Bogart e il primo piano su Belmondo, le due dimensioni restano inesorabilmente separate, queste si uniscono magicamente nel finale, quando i due amanti si baciano intensamente, come i due giovani protagonisti della “Donna del Bandito” di Nick Ray, illuminati dalla luce di un film proiettato in un cinema. Da questo confronto, scaturisce anche una profonda riflessione sul concetto di morte (delle persone “reali”), contrapposto a quello di immortalità (dei miti, delle icone). Un altro contrasto presente nel film, forse il più significativo, è quello fra sofferenza ed apatia, ossia fra dolore e nichilismo, ispirato dalla bellissima frase da Faulkner, a mio avviso una possibile chiave per leggere l’opera: si apprende come il fatalista Michel prediliga il “nulla”, laddove la tormentata Patrizia preferisca “soffrire”. E questa divaricazione di fondo fra Michel e Patrizia conduce ad un articolato discorso su argomenti destinati a dominare il cinema degli anni 60 e 70: l’incomunicabilità fra uomo e donna, alimentata dalle reciproche differenze attitudinali ed intellettuali (Michel rinfaccia più volte a Patrizia la sua vigliaccheria, la sua indecisione, le sue mezze misure) e dalla faticosa ricerca di un senso alla loro relazione (i lunghi, immobili, piani-sequenza della parte centrale, anticipano tutto il cinema dell’Antonioni della Trilogia): in alcuni frangenti, si arriva addirittura a precorrere il femminismo. Non manca, infine, una dimensione filosofica, basata sul conflitto fra volontà e necessità (“Non so se sono infelice perché non sono libera o viceversa” si chiede Patrizia; “Il delatore denuncia, come l’assassino uccide” declama Michel). Infine, al di là dell’apparente amoralità e della forma eversiva, il film di Godard non cade mai nell’intellettualismo e propone personaggi romantici, che si sobbarcano una sofferta e dignitosa dimensione tragica.
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