Crocodile, Kim Ki-duk, 1996
Il 1996 è un anno abbastanza emblematico del cinema coreano, in primis nasce il Busan International Film Festival, il cui effetto trainante è stato devastante, poi esordiscono un numero esorbitante di registi destinati a cambiare per sempre la cinematografia locale (da Hong Sang-soo a Yim Soon-rye) e tra i tanti troviamo il ribelle Kim Ki-duk.
Crocodile espone fin dai primi minuti gran parte della poetica del ragazzo di Bonghwa, a partire dall'attenzione verso emarginati e vagabondi costretti a "vivere" di espedienti in un contesto sociale degradate e mortificante.
Coccodrillo (Jo Jae-hyun) è un senzatetto che per vivere ruba i resti di coloro che si suicidano gettandosi da un ponte del fiume Han di Seul.
Il nostro clochard ormai disilluso da tutto e tutti è un puro animale che vive d'istinto, incapace di comunicare se non attraverso la violenza estrema e brutale spesso sconfinante in atroci atti sessuali/stupri; una violenza che si pone come una sorta di linguaggio del corpo, essenza del cinema di Kim Ki-duk.
Non mancano poi le dicotomie antitetiche di kitaniana memoria tra cui il dualismo amore-morte, qui riproposto più volte e sotto diverse prospettive (tra cui gioco-morte con i bambini protagonisti).
Tornando sul tema della violenza, troviamo poi atti di mutilazione e autolesionismo quasi a simboleggiare un dovuto percorso di espiazione.
Concludo il discorso tematico con l'importanza simbolica dell'acqua, luogo materno dove ripararsi oppure teatro di morte.
Sul versante tecnico potremmo dire tante cose, ovviamente impossibile non citare quell'alternanza tra lirismo malinconico (le scene "subacque") ed estratti neorealisti di pura violenza con la camera fissa attenta ad immortale stupri di ogni genere, sovente con il carnefice di spalle (tipologia di inquadratura riproposta da Lee Sang-woo; futuro allievo di Kim Ki-duk, cavallo pazzo tale da far sembrare Kim un chierichetto modello).
«Sono solo un rifiuto della società» Coccodrillo.
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