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Coccodrillo

Regia di Kim Ki-duk vedi scheda film

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Questo testo contiene anticipazioni sulla trama.

La recensione su Coccodrillo

di yume
8 stelle

 

Locandina originale

Coccodrillo (1996): Locandina originale

Un’energia fatta di rabbia che esplode in violenza incontenibile, che le dia o le prenda è lo stesso, Coccodrillo non ha imparato un altro linguaggio, conosce quello e con quello comunica col mondo, visto che un minimo di comunicazione bisogna pur mantenerla per vivere.

 

Ma un’alternativa c’è, ed è il fondo azzurro del fiume, lì non è sporco di rifiuti umani, liquami e quant’altro, lì si può sistemare un divanetto a fiori, un quadretto appeso al pilone del ponte e starsene in pace con lei e i suoi lisci capelli fluttuanti, mentre la tartarughina dipinta di azzurro muove agili le zampette nuotando verso la superficie.

 

Coccodrillo ha addosso scaglie di melma e corazza pesante, il suo passato è ormai raso al suolo.

Bello, forte e rabbioso, emerge dal nulla come il vecchio clochard, il “nonno”, miope, buono e bravo a raccattar lattine e a far funzionare di nuovo vecchie carcasse impossibili, e il bambino che vende gomme e cianfrusaglie nel parco e aiuta così la baracca, uno di quei bambini  che solo il cinema dell’Estremo Oriente sa mettere in scena così veri, più grandi dei grandi e spesso più tremendamente soli.

 

Che vivano sotto un ponte del fiume Na e Coccodrillo si tuffi a depredare  i suicidi che non di rado piombano giù con le batterie scariche non stupisce nessuno, sembra il loro habitat naturale in una Seul più simile ad una capitale dell’oblio che ad una metropoli pulsante di vita e progresso.

All’insano terzetto, l’uomo, il vecchio e il bambino, degenerazione metropolitana del trittico della vita, si aggiunge, a completamento, la donna suicida salvata in extremis, utile oggetto di stupro per Coccodrillo ma (e qui la cultura si riprende i suoi diritti sulla natura), problematico elemento di rottura.

 

Vuoi toccarmi il cuore- è l’accusa che le scaglia contro Coccodrillo.

 

La donna non ha nome, non parla, c’è intorno a lei una storia che sarà ricostruita a frammenti, la sua permanenza sotto il ponte è troppo recente perché il passato scompaia del tutto come per gli altri tre.

Riaffiora un lontano ricordo del passato anche in Coccodrillo, un tempo bambino in un mondo diverso, ma ora lui odia le barchette colorate che il piccolo mette nell’acqua fetida e una, forse, arriverà al mare.

Ma a Coccodrillo ricordano troppo la propria vita distrutta e la rabbia esplode.

 

Anime sulla riva di Acheronte in attesa di essere traghettate verso il nulla eterno, riescono a costruire momenti di vita carichi di bellezza, e sono la torta per il compleanno del “nonno”, il pacchetto regalo che Coccodrillo gli lancia, rude, e dentro ci sono gli occhiali per i suoi occhi miopi, la fiera, simpatica allegria del bambino e il suo pianto disperato sul “nonno” ucciso dal distributore per il caffè che sapeva aggiustare, il palloncino d’acqua che salta, colorato, in superficie dal fondo del fiume e la testa di lei che si appoggia, piano, sulla spalla di Coccodrillo.

 

Contrasti lancinanti in questo primo lungometraggio con cui Ki-Duk Kim cominciò, nel ‘96, a mettere a punto i modi della sua poetica “bipolare”, come la chiama Dario Tomasi con folgorante definizione.[1]

Questo cineasta anomalo, con una storia alle spalle che sembra il manuale del perfetto déraciné, ragazzotto montanaro dispettoso e violento, operaio in fabbrica e sottufficiale nell’esercito per cinque anni, predicatore buddista e pittore  nei bistrot parigini, che proclama "il frutto del lavoro manuale l'unica cosa che abbia valore, e la cultura un lusso", privo di formazione cinematografica e con problemi di ortografia, un bel giorno cominciò a scrivere la sua vita usando proprio il cinema, con un progetto in cui ogni film è una sequenza della propria storia.

 

La crudeltà è il passo iniziale, con quella si è scontrato e quella cala dentro Crocodile, il primo lungometraggio che sbeffeggia la Corea neo-capitalista e prospera in nome dei tanti Coccodrilli impigliati sotto i suoi ponti senza speranza, rifiuti umani a cui l’acqua, elemento centrale in tutto il suo cinema, offre l’unico rifugio possibile, una placenta in cui riavvolgersi in un definitivo cupio dissolvi.

 

Coccodrillo ha la faccia di Jae-Hyeon Jo, straordinario attore che tornerà in Bad Guy, L’isola e Address Unknown, felice simbiosi col regista nel rendere l’estremismo disperato, eppure così forte di poesia e bellezza, di un uomo che “sembra sé stesso solo in quei momenti in cui il corpo cambia di regime, non obbedisce più al cervello, si strappa la camicia dello spirito per non reagire che all’istinto, come il ginocchio si tende sotto il colpo del martelletto. Il cineasta orchestra un mondo che agisce attraverso le pulsioni.Soprattutto le pulsioni sessuali e di morte[2]

 

Eppure, in questo “teatro della crudeltà”  Ki Duk Kim, come Artaud,  pone una forte credenziale etica:

 

 “Avete mai veramente guardato le vite che mostro nei miei film? Avete mai visto sul serio il grido disperato che c'è nei miei lavori?"

 

Non ci sono finali consolatori né prospettive salvifiche, neppure in orizzonti lontani.

Quando sembra che qualcosa cominci a funzionare, è lì che ogni speranza muore e un brivido scorre dalla testa ai piedi nel guardare quelle figure immerse in ombre azzurrine .

Eppure il cinema di Ki –Duk Kim ci lascia con una strana dolcezza addosso, Coccodrillo che si rifugia in fondo al fiume non riusciamo a ricordarlo nella sua violenza, tutt’altro.

Forse è così che dev’essere, pensiamo, e forse è vero quello che dice del suo cinema il regista, "un processo per trasformare la propria difficoltà a capire in una possibilità di comprendere".

 

Una possibilità, certo, per chi sia disposto a comprendere.

 

 

[1] M.Dalla Gassa – D. Tomasi, Il cinema dell’Estremo Oriente, UTET, 2010, p. 127

[2] A.Gombeaud, Break on Through, in A.Gombeaud et al., Kim Ki Duk, Disvoir, Paris, 2006, p. 13 (in M.Dalla Gassa – D. Tomasi, cit. p. 127)

 

 

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