Regia di Martin Scorsese vedi scheda film
“Tu conosci bene Hollywood il suo intero sistema, quindi le idee lasciale a me”: sembra quasi una sorta di premessa, questa volta assolutamente necessaria (altrimenti non si potrebbe giustificare, anche nel caso di un film e di un regista come questo, il nostro giudizio sufficiente), dichiarata dal regista italoamericano, Martin Scorsese, per bocca di Di Caprio, all’inizio del film, The Aviator, candidato a ben undici nomination agli Academy Awards, o più semplicemente gli Oscar. “UN film che costa quanto una guerra vera”.
Sarebbe strano che Scorsese ricevesse proprio per questo film l’Oscar (questa è la sua sesta candidatura), non avendolo mai ricevuto per altri film, veri capolavori, l’ultimo in ordine di tempo Gangs of New York di due anni fa. In realtà Scorsese è stato dall’inizio della sua carriera pluripremiato dalla critica e dal pubblico mondiale, per ogni suo film o semplicemente un documentario, perché, comunque, rimane fra i registi di “razza rara”.
Tuttavia, sembra proprio che con The Aviatorf il bravo regista ha (tra)lasciato “le idee”, quelle del e sul cinema, alle quali ci aveva abituati.
The Aviator è un biopic, genere tanto in voga quest’anno, imponente, tecnicamente spettacolare, dagli effetti speciali alla fotografia, passando per il sonoro, il montaggio, i costumi e la scenografia dell’immancabile Dante Ferretti e ovviamente la regia. Tutto rende onore e merito innanzitutto a Leonardo Di Caprio (evidentemente si tratta di un film che calza a pennello la sua figura attoriale, fortemente voluto dallo stesso nelle vesti anche di produttore esecutivo), ma anche all’Hollywood del periodo d’oro, dagli anni Venti al secondo dopoguerra, con tanto di omaggi alla straordinaria Katharine Hepburn (interpretata dall’altrettanto brava Cate Blanchett), Ava Gardner (il volto è quello della bellissima Kate Backinsale) e agli aspetti contraddittori e controversi dell’American Dream-Cinema. Infatti, con The Aviator, Scorsese continua a raccontarci la sua America. Se con Gangs of New York ci dava la sua lettura della nascita dell’America, con questa sua ultima opera ne descrive la parabola dell’ascesa fino alle più alte vette del potere a cui consegue, ineffabile, il declino, ingrato frutto delle sommità raggiunte. E’ il caso, per esempio, della travolgente ironia (uno dei momenti più alti del film) in cui il presidente Roosvelt, attraverso un gioco di battute, viene siglato come un “cane”, o quando si afferma che “rispetto ai pettegolezzi noiosi di Hollywood, c’è qualcosa di più importante di cui interessarsi: Mussolini”.
The Aviator è il miliardario texano Howard Hughes, il racconto delle sue passioni: l’aviazione e l’ingegneria aeronautica, il cinema e le donne, che colleziona come fossero figurine Panini; i suoi vent’anni, in cui per Hughes si alternano conquiste e disfatte, amori e delusioni, trionfi e capitolazioni, passando per la storia dell’aviazione americana, dall’acquisizione della TWA, al processo intentato contro il magnate dal senatore Brewster, legato agli interessi della rivale Pan Am. Hughes, minato da una malattia dal decorso inesorabile, si renderà sgradevole agli occhi di tutti, prima fra tutte la stampa, che ne farà un vecchio pazzo vittima di impietose ironie.
Se attraverso Toro scatenato Scorsese ci aveva offerto una lezione sulla Little Italy post bellum, con The Aviator il suo documentario sul cinema americano continua, proprio attraverso il racconto del magnate Hughes, tra l’altro figlio di un petroliere da cui eredita un reddito annuo di circa due milioni di dollari, il regista descrive la parabola di quella che sarà denominata la “produzione indipendente” nell’ambito del cinema, punto-forza del suo stesso modo di lavorare e ipotizzare una strada privilegiata per il cinema.
Tanti i rimandi del film di Scorsese a capolavori della storia del cinema mondiale: da Quarto potere di Orson Welles, al suo stesso Casinò, passando naturalmente da Toro scatenato e finanche Spider di Cronenberg, specie nella descrizione delle fobie di Howard: del terrore per le infezioni, beve solo latte da bottigliette ermeticamente sigillate, oltre che la migliore fra tutte, quella per cui Hughes s’isola dal mondo, circondato da flaconi della propria urina.
Peccato che, nonostante lo script sia firmato da John Logan (Il gladiatore, L’ultimo samurai) ciò che non funziona nel film di Scorsese è l’emozione in sé, in altri lavori quasi endemica, ma qui del tutto assente. Speriamo che anche Scorsese avverta l’esigenza (specie dopo l’eventuale Oscar) di isolarsi dal mondo, magari non allo stesso modo di Hughes, per consegnare al cinema storie che vanno al di là della vita.
Giancarlo Visitilli
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